Serbia: migranti prigionieri nella terra di mezzo

Ignorati dall’Europa dell’accoglienza, aggrappati al proprio progetto di salvezza

Resoconto di una missione umanitaria e conoscitiva, organizzata dalla Cooperativa Coop Noncello di Pordenone. 5 – 8 maggio 2017

di Patrizia Fiocchetti

Se i volti sono stanchi, gli occhi sono illuminati dalla luce della determinazione. La luce che viene da una speranza salda e irriducibile, quella di voler andare avanti, contro tutte le ragioni della realpolitik, e a dispetto della paura che altri gli hanno disegnato addosso e che si portano cucita come un’ombra fastidiosa ma ineluttabile.
«Perché dovrei entrare in un campo statale qui a Belgrado? Perché dovrei denunciarmi per poi essere obbligato a presentare domanda di asilo a un paese che non mi vuole?». L’uomo pachistano, che non mi dice il nome, parla sorridendo schiettamente tenendo con una mano il piatto di minestra e nell’altra una mela, il pasto appena datogli dall’associazione di volontari BelgrAid.

Belgrado, stazione vecchia. Foto di Cristina Campanerut

Ci troviamo nella stazione vecchia della capitale serba, davanti a una serie di edifici abbandonati in cui sono accampati ormai da tempo un migliaio di profughi in attesa di poter proseguire il viaggio intrapreso da mesi, verso l’Europa centrale.
«Quando ho provato a passare la frontiera con l’Ungheria, la polizia mi ha accolto con manganelli e cani». Continua a leggere

Ritorno da Kobane, cuore della rivoluzione femminista – intervista a Carla Centioni

di Patrizia Fiocchetti

«Da dove posso iniziare a raccontare? Le sensazioni sono talmente tante che ho quasi difficoltà a restituirle. È come se volessi trattenerle per riuscire ad elaborarle dandogli il giusto tempo. Essermi trovata nel luogo dove si sta compiendo la prima rivoluzione femminista è di forte emozione».
Le parole descrivono benissimo quanto colgo dal volto e dai gesti di Carla Centioni, rientrata da un mese dalla sua missione a Kobane, capoluogo del Rojava, nel Kurdistan siriano, città simbolo della lotta contro il Daesh. Ci incontriamo nell’appartamento di un caro amico, Giancarlo Scotoni che l’ha accompagnata e ne ha atteso il ritorno a Erbil, in Iraq.
Carla Centioni è la presidente dell’associazione PonteDonna che si occupa di progetti rivolti alle donne vittime della violenza maschile. Ma Carla è anche un’attivista che porta la propria esperienza e sensibilità all’interno del movimento #Nonunadimeno. E anche una mia cara amica.13901440_598584550315455_4511675929860650029_nÈ un piacere parlare di questo tuo viaggio, finalmente. Un viaggio che ci ha colti un po’ tutti di sorpresa. Nel 2015 siamo partite insieme per Kobane ed è proprio in quell’occasione che ci siamo conosciute. Partivamo alla volta di questa città appena liberata. Credo per te sia stata una emozione forte tornarci a distanza di due anni esatti. Ritrovare una Kobane trasformata. Io ne conservo le immagini di distruzione e mi interessa chiederti prima di tutto, come hai ritrovato la città.
«Quando entrammo a Kobane agli inizi di marzo 2015, era passato appena un mese dalla liberazione dal Daesh. Circolavano solo i componenti dell’Unità di difesa popolare (Ypg) e di difesa delle donne (Ypj). Ricorderai le nostre camminate sui mucchi di macerie. Ho trovato una città trasformata e sì, ho provato una profonda emozione. Kobane si è ripopolata, quasi tutti gli abitanti sono rientrati, attualmente ci vivono 40.000 persone. A parte la zona scelta per un museo a cielo aperto a testimonianza della vittoria contro il Daesh, vicino la porta che segna il confine con la Turchia, il resto della città è un cantiere. Nel corso dell’incontro avuto con il sindaco di Kobane, Muro Huseyn, ho preso visione del progetto di ricostruzione della città. Lo ho accompagnato in una visita ad un quartiere di edilizia popolare di nuova costruzione: il 21 marzo in occasione del Nowruz (Capodanno per i popoli di alcune zone e paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, che coincide con l’equinozio di primavera, nda) verrà consegnato ai figli dei combattenti uccisi». Continua a leggere

Viaggio nel limbo ateniese (III parte)

Qui la prima e la seconda parte

di Patrizia Fiocchetti

Impossibile non imbattersi nei profughi ad Atene. A piazza Monastiraki dove inizia la salita per il Partenone, ho visto una famiglia di siriani con tanto di valige sedere accanto ai turisti che riposavano dopo la visita al sito archeologico. A piazza Syntagma, davanti alle guardie dove ha sede il parlamento greco, un uomo e i suoi bambini davano da mangiare

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Tutte le foto sono di Patrizia Fiocchetti

briciole ai piccioni. A piazza Omonia, dove troneggia il manifesto Welcome to Greece, drappelli di giovani cercavano riparo sotto radi arbusti dal sole cocente. Grazie alla funzionale rete delle quattro linee metro realizzate per i giochi olimpici del 2004, nonché alla totale assenza di tornelli d’ingresso e di relativi controlli, raggiungere questi luoghi è decisamente semplice.
Piazza della Vittoria è stato scelto dagli afghani quale punto di aggregazione. Da qui è partita una manifestazione che si snodava lungo via 28 Ottobre un pomeriggio in cui mi recavo a un incontro con un comitato di giuriste greche che si battono contro la svendita di proprietà pubbliche da parte del governo Tsipras.
Alla testa del corteo c’erano i profughi, tutti afghani di etnia hazara che scandivano slogan in farsi, inglese e greco. A seguire gruppi di attivisti dei centri sociali. Avevo fermato un terzetto di greci chiedendogli da chi fosse stata organizzata. «Dal Comitato di solidarietà con i rifugiati». Sapete che i profughi presenti sono solo afghani? Si erano guardati l’un l’altro ma nessuno di loro aveva risposto.20160409_143831
Dal mio arrivo più volte e in varie ore del giorno mi ero recata a piazza della Vittoria. La mattina non vi avevo trovato quasi nessuno, tranne una famiglia iraniana e qualche ragazzo che vi aveva passato la notte. Nel pomeriggio inoltrato nel parco situato al centro della piazza, si radunavano invece i nuclei famigliari e si potevano osservare capannelli di giovani uomini fumare e chiacchierare intorno alle aiuole. Pochi i greci che sedevano sulle panchine, per lo più transitavano nei vialetti senza mostrare alcuna curiosità, quasi indifferenti. La sera, su un lato della piazza parcheggiava un furgone privo di qualsiasi effige, a distribuire pane e minestra calda in grandi bicchieri di plastica. Continua a leggere

Viaggio nel limbo ateniese (II parte)

Qui la prima parte

di Patrizia Fiocchetti

Ritorno al Pireo, questa volta da sola, dopo due giorni. Cammino e avvicinandomi al Gate 3, mi avvedo del parcheggio vuoto. Scomparse le tende e un uomo con un gilet arancione sta lavando l’area. Dall’interno della palazzina escono operai che trasportano sacchi pieni di rifiuti mentre un altro è alla guida di un’auto pulente.
«Non può entrare». La biondina greca della sicurezza mi lancia il monito senza alzare lo sguardo dal cellulare. Non ne ho intenzione, la rassicuro. Li hanno trasferiti, quindi. «Sì, ieri mattina. Alla fine hanno ceduto» e mi volta le spalle per rispondere a una chiamata.
Proseguo lungo l’ampia banchina a cui sono attraccate le navi traghetto che portano a Creta. Incrocio gruppetti di ragazzi che si dirigono verso l’uscita, camminano in silenzio, il sole è impietoso. All’ombra di una tettoia che protegge una fermata d’autobus, incontro due uomini iraniani che parlano con una ragazza greca, una volontaria che prima di allontanarsi li abbraccia.

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Tutte le foto sono di Patrizia Fiocchetti

Ali Reza ha 25 anni e viene da Teheran. «Sono fuggito perché non volevo andare a farmi ammazzare in Siria. Dopo una sessione di tiro nel mio addestramento come militare di leva, fui chiamato dal comandante che mi diede la notizia: vista la mia bravura sarei stato inviato in guerra. Non ne volevo sapere. Sono fuggito dalla caserma ma quelli della Sepah pasdaran (corpo dei guardiani della rivoluzione, nda) mi hanno trovato e arrestato. Ho trascorso diversi giorni nella prigione della 66° Sepah, picchiato con bastoni, guarda» e mi mostra le mani. «Mi hanno spezzato le dita. Alla fine ho ceduto, e nelle 24 ore che mi hanno concesso per preparare i miei effetti personali, sono scappato fuori città, nei villaggi. Lì ho contattato dei passeur che mi hanno aiutato ad attraversare le montagne. E poi la Turchia, il mare e ora qui, intrappolato in Grecia». Continua a leggere

Viaggio nel limbo ateniese (I parte)

di Patrizia Fiocchetti

Elaborare il dolore è diventato esercizio sempre più lungo e complesso. Passare al setaccio della mia anima immagini strazianti e parole di rabbia e disperazione per trasformarle in scrittura, richiede uno sforzo che mi priva di energie. Per questo, faccio trascorrere i giorni, prendo un distacco, provo a riempirmi gli occhi di altri orizzonti, le orecchie di altri suoni e poi, solo allora mi sento pronta a testimoniare.

Atene 4 – 12 aprile 2016

«Quando apriranno i confini?» «L’Europa riaprirà i confini?» «Che fine faremo qui in Grecia?». Li osservo, ragazzine con al collo bambini di pochi mesi, giovani uomini accanto, gli occhi a mandorla che tradiscono la loro appartenenza all’etnia hazara.
Mi hanno circondata appena hanno sentito che parlavo farsi. Avevo provato ad approcciare alcune giovani donne, una di nome Fereshteh, diciottenne di Kabul. Ma subito, a interromperci erano arrivati gli uomini e la parola era passata a loro.

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Tutte le foto sono di Patrizia Fiocchetti

Siamo fermi davanti al Gate 3, porto del Pireo più di un chilometro dal cancello d’ingresso che si percorre, privo di ripari, sotto l’inconsueto sole di quest’inizio aprile.
Mentre mi avvicinavo a quel primo blocco accompagnata da Lila, una conoscente greca che di mestiere fa la guida turistica, avevo incrociato profughi che a gruppetti sparsi si recavano alla fermata della metro Piraeus che collega al centro di Atene: piazza Omonia e piazza Vittoria i luoghi di ritrovo per quelli che vogliono organizzare il prosieguo della fuga verso Idomeni. Verso l’inferno delle barriere e degli scontri, rifiutando quell’incertezza che nel limbo ateniese si è impadronita delle loro esistenze.
Nei posteggi che come ali si aprono a destra e sinistra del Gate 3 ci sono file di tende canadesi di vari colori da dove si vedono emergere donne e bambini, questi ultimi sporchi ma giocosi, le madri o sorelle stanche, lo sguardo vuoto. Nessun sorriso. Continua a leggere

#CyclingForPalestine rewind – Day 125 I due giorni del Ben Gurion

Tom No è ritornato dalla Palestina, con un carico di contatti e di progetti da realizzare e di cui ci parlerà, a partire dall’iniziativa di Laspro di venerdì 10 luglio. Intanto, ha ancora alcune storie da raccontare del suo viaggio in bicicletta, da Roma alla Palestina: seimila chilometri contro l’occupazione e l’islamofobia.
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di Captain Tom No

Roma. Ed eccoci qua. Per fare un bilancio è ancora presto; non si possono tirare le somme dopo sole quattro settimane da che son tornato, due delle quali vissute in stato confusionale grave e altrettante in una specie di bolla post sbronza.
Ultimamente mi diverto a dimenticare i resti alla cassa, a perdere le chiavi, il cellulare, gli occhiali, il tabacco, insomma tutto ciò che dovrebbe seguire itinerari rigorosamente circolari, dalle tasche e ritorno, opta piuttosto per rotte lineari e destinazioni ignote; pertanto passo le mie giornate a chiamarmi da altri telefoni giusto per capire dove sono finito.
Chi mi risponde è sempre molto gentile e comprensivo; onesto soprattutto. Tranne l’ultima tassista, la quale ha insistito tanto per riportarmi lei il cellulare anziché io raggiungerla per riprendermelo.
«Ma no ma no, passo io figurati, qual è il problema?».
Il problema è che se ti dicono così tu cosa ti immagini? Non certo di pagare la corsa. Ma come fa certa gente a far figure per sette euro e venti? Magari gliene avrei dati dieci e volentieri le avrei offerto un caffè. Invece gliene ho dati sette malvolentieri, e i venti fottuti centesimi me li ha abbonati: che quando mi ha detto che c’era il tassametro in funzione devo aver messo su una maschera di disgusto da teatro Kabuki.
Ben mi sta, così imparo a scordarmi in giro le cose, la testa.
Ben mi sta, così imparo a star lontano da certi stereotipi, acciocchè il rapporto insano col danaro non sia appannaggio esclusivo dei sionisti.

Gerusalemme ovest

Gerusalemme ovest

Però cavolo a Gerusalemme – non per dire – un imballo per la bici l’ho dovuto pagare… venti shekel (4,60 euro); tutto sporco e mezzo rotto. Quel vecchio satiro vicino alla King George, per metà capra e per metà ladrone, ha un’officina ciclistica ma in realtà la sua dev’essere un’attività di copertura. Tutto per nascondere il vero core business: traffico internazionale di scatoloni usati, per cui il cosiddetto cartello in realtà è diventato cartone, e una trattativa partita da trenta shekel a momenti finiva nel sangue. Io c’ho provato a trovare un imballo gratis per la bici, voglio dire stiamo parlando di una stramaledettissima scatola destinata al macero, ovvero cellulosa al capolinea: tu! Inutile massa cartacea! Ti si offre un’ultima chance: o preservi dagli urti un biciclo o cedi all’eterno ciclo del riciclo! Continua a leggere

#CyclingForPalestine Rewind – Day 89 «Scopare per l’Amazzonia»

Tom No è ritornato dalla Palestina, con un carico di contatti e di progetti da realizzare e di cui presto ci parlerà. Intanto, ha ancora alcune storie da raccontare del suo viaggio in bicicletta, da Roma alla Palestina: seimila chilometri contro l’occupazione e l’islamofobia.

di Captain Tom No

Dio mio quante cose non conosciamo, non comprendiamo. Me ne sto seduto sotto la poca ombra reperibile alla stazione dei traghetti di Konak a domandarmi come può questa condizione di “sapiens sapiens” conciliarsi con una realtà così complessa e inafferrabile? L’intero ammontare dello scibile umano non basta nemmeno a evitare il dolore evitabile, il male fine a se stesso: e ciò che non si compenetra nei valori opposti, non vi si innerva per formare un insieme in equilibrio, se fosse vera consapevolezza la nostra, oggi non sarebbe più accettabile in quanto pura barbarie.
izmirA Izmir fa piuttosto caldo, ci si salva ancora perché è maggio, ma in Turchia, a detta del mio ospite, inverno ed estate sono impegnativi; è un clima diverso dal nostro e quella turca è una lingua decisamente difficile, con una gestualità totalmente diversa per giunta; tuttavia, lungo la baia ragazzi scommettono su di un pallone che con un solo balzo dovrà abbattere due bottigliette d’acqua poste a mo di birilli, e distanti tra loro poco più della circonferenza del pallone stesso: vince chi riesce a fare il colpo “der cucchiaio” e l’unica cosa che riesco a distinguere nel vociare allegro e impertinente è: «Francesco Totti…!»; Dio benedica questo buon ragazzo. Continua a leggere

#CyclingForPalestine Day 93 Hebron. The day before

Il 17 maggio è arrivato in Palestina Cycling for Palestine – seimila chilometri contro l’occupazione e l’islamofobia, il viaggio in bicicletta di Captain Tom No che Laspro segue sin dalla sua partenza da Roma del 16 febbraio. Ora il giro prosegue all’interno della Palestina sotto occupazione, con la partecipazione anche di cicloviaggiatori palestinesi. È  possibile sostenereCycling for Palestine con un abbonamento speciale a Laspro da 20 euro (10 per la rivista, 10 per Cycling for Palestine).

di Captain Tom No

Ci si abitua a tutto nella vita. Io per esempio mi sto abituando ai coloni che girano attorno al piccolo edificio in cui mi sono, diciamo, sistemato. Loro sono qui per provocare e noi per respingerli e per filmare. Ci si abitua persino all’esercito, che la mattina alle otto te lo trovi già implotonato davanti al cancello.
Nelle ore centrali e in quelle tardo pomeridiane invece c’è un bel commando di capre le quali, noncuranti della situazione, brucano e scacazzano placide, salvo qualche sporadica cornata al piccolo cane che in teoria dovrebbe fare da pastore, e che in realtà non si capisce bene che ruolo abbia se non quello di essere mero oggetto di sfogo. L’itinerario delle capre prevede anche uno stretto passaggio tra due mura a secco, con alla fine una scala in ferro piuttosto ripida; e non vi dico che situazioni si vengono a creare quando il gregge s’arrampica sui pioli: spinte, cornate, calci, momenti di altissima tensione. Il cagnetto in una nuvola di povere scaraventato qua e là a testate, una roba decisamente inquietante insomma.

Con Em Abed e la sua bellissima casa a Hebron, vicino Shuhada street.  Ieri sera ho potuto assaggiare sulla pelle l'umiliazione dei checkpoint: un gruppo di coloni ha deciso di creare disordini e in tutta risposta l'esercito ha chiuso il checkpoint ai palestinesi. Tra loro uomini anziani in attesa da ore, in piedi, a cui si impedisce persino di tornare a casa.

Con Em Abed e la sua bellissima casa a Hebron, vicino Shuhada street. Ieri sera ho potuto assaggiare sulla pelle l’umiliazione dei checkpoint: un gruppo di coloni ha deciso di creare disordini e in tutta risposta l’esercito ha chiuso il checkpoint ai palestinesi. Tra loro uomini anziani in attesa da ore, in piedi, a cui si impedisce persino di tornare a casa.

Pranzo da Em Abed, la quale ha una bellissima casa proprio in Shuhada Street che da dove sono io è a due passi letteralmente. Shuhada Street e i suoi piani in successione, non saprei dire se più spettrali o più surreali: porte in ferro sprangate dall’esterno e grate alle finestre, soldati, torrette. Con gli accordi del ’96 che ne stabilivano la riapertura e il libero accesso ai palestinesi, gli israeliani ci si sono puliti il culo con licenza parlando, e la ratifica l’hanno siglata col filo spinato e del buon acciaio.
Ma fatto sta che grazie a Sohaib riuscirò a trovare tutto, basilico fresco, cipolla fresca, carne macinata, carote, aglio e pasta italiana. Non mi ci vorrà molto per preparare un discreto ragù. Strano poi, non è da me. Io sono negato in cucina. Ebbene si, ho fatto la spesa e ho cucinato per sette persone. Io. In Palestina. A Hebron città polveriera. Arrivo con la bici e faccio fettuccine al ragù, per i palestinesi. Pazzesco davvero.
La casa ha un ingresso su strada con un’ampia scalinata che termina in una corte; da questa poi si accede a ognuno dei vani coperti, cinque in tutto: cucina, bagno e tre camere. La corte funge anche da soggiorno e zona pranzo ed è davvero piacevole starsene tra le sue fresche mura in questi giorni di caldo opprimente. Ovviamente non si è potuto evitare di installare una robusta grata in ferro di dimensioni pari all’area della corte stessa; sospesa a circa sei metri da terra, la grata protegge le nostre teste da pietre o oggetti vari che erroneamente i coloni potrebbero scagliare in modo reiterato e sistematico. Ad ingentilire le sue maglie non può esserci l’edera, datosi che questa necessita di posizioni fresche a mezz’ombra o a ombra, pertanto si è optato per della juta plastificata di colore verde, non bella certo ma che facilmente può illudere l’occhiata fugace, e sicuramente fornisce riparo dal sole cocente e tonalità appropriate. Continua a leggere

#CyclingForPalestine Day 92 – Captain Fragile

Il 17 maggio è arrivato in Palestina Cycling for Palestine – seimila chilometri contro l’occupazione e l’islamofobia, il viaggio in bicicletta di Captain Tom No che Laspro segue sin dalla sua partenza da Roma del 16 febbraio. Ora il giro prosegue all’interno della Palestina sotto occupazione, con la partecipazione anche di cicloviaggiatori palestinesi. È  possibile sostenereCycling for Palestine con un abbonamento speciale a Laspro da 20 euro (10 per la rivista, 10 per Cycling for Palestine).

di Captain Tom No

Perché si deve sapere che te la stai facendo sotto.
Domani passo dall’altra parte, in territorio palestinese. Non sono forse qui per questo? Stamani ho fatto un sopralluogo alla stazione centrale dei bus di Gerusalemme e ne sono uscito sconvolto. Avrei voluto tornarmene a casa, subito, in uno schiocco di dita, con la coda tra le gambe.
La speed machine ha il telaio deformato e anche la ruota posteriore, posso farci solo brevi tratte senza infartare; non ho scelta, devo prendere un autobus. La mancanza di un accompagnatore e la necessità di salire su di un mezzo di linea con quella bici che dà così nell’occhio mi atterriscono. Colpa della troppa violenza delle immagini che la mia mente riceve in ogni momento: fucili d’assalto a tracolla di giovani spalle femminili, come  fossero foulard; vetri blindati, metal detectors, telecamere ovunque. E di contorno gli “orchi”, ossia soldati stanchi, accaldati, nervosissimi; principessine in divisa, o magari in borghese, davvero graziose ma diffidenti come serpi e col dito già sul grilletto. Quella di Israele non è semplice violenza; quand’anche celebrati nel modo più brutale, i più ignobili recessi, quelli più sanguinari di qualsiasi altra parte in guerra, a mio personale avviso quasi perdono consistenza ove messi a confronto con la perversione ideologica,  atavica e stratificata della prospettiva sionista.
I più biechi e repressivi regimi sono state parentesi, lunghe magari, ma nessun altro disegno è mai stato così imperituro è radicato. Mortificare finanche la propria esistenza pur di rivendicarne il diritto su basi religioso-identitarie. Qui si va oltre la barbarie del genocidio o dell’oppressione; si supera l’essenza stessa del male e si arriva alla follia, all’inferno vero e proprio. A ciò che la pittura fiamminga coi suoi rituali di “auto da fe” ha portato su tela: la natura bizzarra e contraddittoria del male.

Anonimo seguace di Hieronymous Bosch, Cristo nel Limbo, c. 1575, Indianapolis Museum of Art

Anonimo seguace di Hieronymous Bosch, Cristo nel Limbo, c. 1575, Indianapolis Museum of Art

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#CyclingForPalestine – Day 91 Bersaglio mobile

Il 17 maggio è arrivato in Palestina Cycling for Palestine – seimila chilometri contro l’occupazione e l’islamofobia, il viaggio in bicicletta di Captain Tom No che Laspro segue sin dalla sua partenza da Roma del 16 febbraio. Ora il giro prosegue all’interno della Palestina sotto occupazione, con la partecipazione anche di cicloviaggiatori palestinesi. È  possibile sostenere Cycling for Palestine con un abbonamento speciale a Laspro da 20 euro (10 per la rivista, 10 per Cycling for Palestine).

di Captain Tom No

Ogni considerazione a seguire è sotto la mia esclusiva e personale responsabilità; Laspro non risponderà dei contenuti qui riportati quand’anche venissero ritenuti lesivi all’immagine dei soggetti ivi menzionati. Del resto, il mio nick “Tom” sta per Tommaso, e ovunque io vada credo solo a ciò che vedono i miei occhi, perdonatemi.

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Giovani con fucili d’assalto a tracolla, in un giorno qualsiasi in Jaffa Road a Gerusalemme

Da che sono partito ho sempre pensato ai problemi che avrei potuto incontrare alla frontiera, mai mi sarei sognato di passarla liscia al Ben Gurion e mai mi sarei sognato le circostanze nelle quali invece mi trovo a vivere ora che sono a Gerusalemme.
La situazione è diciamo sotto controllo ma è da un giorno e mezzo che scoppio d’ansia tant’è che l’herpes labiale si è rifatto vivo; inoltre da Izmir ho un occhio gonfio e mezzo chiuso, non saprei dire perché.
I problemi iniziano al ritiro bagagli oversize dell’aeroporto di Tel Aviv, dove trovo l’imballo della bici semi sventrato; sono le 22 e non posso mettermi a controllarne il contenuto qui, non voglio richiamare le attenzioni della security, lo farò domani a casa di Yonatan, il tizio che avrebbe dovuto accogliermi. Avrebbe dovuto…
Yonatan all’aeroporto non si presenta, e fin qui lo posso capire: il Ben Gurion dista da Tel Aviv Yafo almeno una ventina di chilometri se non erro, e lui c’ha la Panda, il che rende inutile qualsiasi tentativo di trasportare la bici con l’auto. Continua a leggere