“Prima di tutto abbiamo dovuto insegnare cos’è libertà. Abbiamo dovuto iniziare a fare formazione per far capire cos’è la libertà perché c’era gente che non sapeva cosa fosse” dice così Newroz Kobane, 25 anni, dal nome improbabile ma che lei dice essere il suo, spiegandoci cos’è “il modello Rojava” e il lavoro fatto negli ultimi anni su quel territorio devastato dalla guerra. Ci guarda fisso negli occhi e ci racconta per oltre un’ora com’era la sua vita a pochi km da qui, nella Kobane ora teatro dello scontro con l’Isis. Siamo nella tenda di uno dei campi profughi alla periferia di Soruc dove Newroz è una delle responsabili, ci racconta di quando hanno aperto la casa delle donne o di quando hanno creato le scuole per le stesse donne a cui fino ad allora era impedito andarci.
“Ma non ci siamo limitate a farlo a Kobane, siamo andati villaggio per villaggio a spiegare e a insegnare cos’è la libertà e cos’è la libertà delle donne”. Mi fermo a pensare a ciò che sono “le case delle donne” dalle nostre parti e dell’attacco che subiscono quotidianamente mentre lei ci spiega il lavoro (enorme aggiungo io) che hanno fatto negli ultimi anni. “Per prima cosa abbiamo dovuto ridurre la pressione degli uomini sulle donne. Difendevamo i diritti delle donne quando una di loro scappava di casa o veniva cacciata. Le accoglievamo perché volevamo evitare che le donne subissero violenze. Abbiamo fatto formazione con le donne su quali erano i loro diritti ma allo stesso tempo insieme ai tribunali e alle donne stesse decidevamo le cause di separazione. Il nostro obiettivo erano i diritti delle donne ed eravamo così riconosciute che nei casi di violenze o stupri eravamo noi ad andare a prendere gli uomini per portarli in tribunale”.
A Kobane ogni quartiere aveva la sua casa delle donne ed erano tante coloro che ci lavoravano. Mi imbarazzo se penso che a Roma a stento ogni municipio abbia un consultorio. Ma penso anche che se oggi Newroz e le altre donne nei campi abbiano un ruolo e una importanza è soprattutto grazie a questa rivoluzione culturale messa in atto da loro stesse.
“Abbiamo fatto anche formazione per gli uomini, certamente. Ed è probabile che la nostra determinazione gli abbia impedito di reagire con violenza ai cambiamenti tanto che alla fine sono stati costretti ad accettarli”.
È una donna fiera della sua identità e del suo essere musulmana. Non da nessuna dignità politica e religiosa all’esercito islamico, lo liquida con un “sono disumani e non sono dei musulmani”.
E mi imbarazzo di nuovo visto l’immaginario costruito nel mio paese dell’universo musulmano. Per questo probabile che loro vincano e che dalle mie parti invece giorno dopo giorno si perda un pezzo dei diritti conquistati con anni di lotte.
Archivio mensile:novembre 2014
Ripartire da Kobane
Un gruppo di attivisti romani in viaggio al confine turco con la Rojava, per comprendere e raccontare la straordinaria resistenza del popolo curdo.
Nel mezzo del conflitto siriano, nelle tre principali aree curde del nord della Siria, uno straordinario esperimento di democrazia ha folgorato tutti gli amanti della libertà. Dopo aver espulso gli emissari di Assad, e nonostante l’inimicizia di gran parte dei vicini, la Rojava non solo sta mantenendo la sua indipendenza, ma sta portando avanti la sua “rivoluzione segreta”. I corpi titolari del potere decisionale sono le assemblee popolari, in ogni governatorato le cariche vengono assegnate con il rispetto tanto delle diverse etnie quanto dei generi, ci sono consigli dei giovani e delle donne. Proprio le donne, unite nelle brigate delle YPG, stanno guidando l’eroica resistenza di Kobane contro l’avanzata dello Stato Islamico. Al califfo Al-Baghdadi non deve andare giù che a fermare il suo esercito siano proprio le donne che lui vorrebbe vendere come merci nei mercati di Raqqa. Non deve andar giù nemmeno che una “città ribelle”, con un esercito popolare e male armato, stia resistendo da oramai due mesi, quando grandi città come Raqqa e Mosul sono cadute in meno di 24 ore. Abbiamo l’impressione che Kobane da sola stia scompigliando le carte dei grandi attori internazionali nella regione, in una partita che va ben al di là della sua sopravvivenza.
Se fino all’attacco dell’ISIS sul monte Sinjar il mondo aveva ignorato la Rojava, la notizia dell’eroico salvataggio di migliaia di yazidi intrappolati in Iraq (il 3 Agosto) è stata celebrata in tutto il Medio Oriente, mentre è stata taciuta o mistificata dai media occidentali. In seguito, quando gli aerei da guerra americani hanno cominciato lentamente ad intervenire lo hanno fatto con occasionali e simbolici bombardamenti. Sappiamo però che per fermare l’ISIS sarà necessario che le popolazioni locali inizino a sognare di poter prendere in mano il loro futuro: la storia irakena degli ultimi dieci anni ci insegna che non serviranno nuove crociate a stelle e strisce per portare democrazia.
In un Medio Oriente in cui la geopolitica occidentale traccia da secoli confini sulle mappe geografiche basandosi su divisioni etniche, linguistiche e religiose, considerate a torto irriducibili, si scopre che proprio in questa terra, dove per definizione i popoli saprebbero vivere solo sotto l’egida di regimi autoritari, donne e uomini possono cooperare dal basso per una democrazia radicale, egualitaria, laica e anticapitalista. Una democrazia in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo e “la padronanza dell’uomo sulla donna e sulla natura” sono abbandonati per cercare di spezzare il circolo della violenza creato dai diversi nazionalismi in competizione per il controllo dello stato-nazione. Scopriamo che se in una società il più forte coopera con il più debole per “fare rete” e non per dominare l’altro possiamo intravedere “il regno della libertà”. Con la Carta della Rojava si sta mettendo in discussione un modello di civilizzazione vecchio di millenni, fondato ben prima della nascita del capitalismo. La Rojava è un esperimento pericoloso perché potenzialmente universale.
Il confederalismo democratico contiene diverse innovazioni teoriche molto interessanti, prima fra tutte il federalismo bottom-up, la possibilità dei commons di organizzarsi dal basso. Il PKK ha infatti dichiarato di non perseguire più la creazione di uno Stato-nazione kurdo indipendente. Inspirato dall’utopia insita nell’ecologismo sociale, in Rojava sono sorte comunità auto-governate basate sui principi della democrazia diretta e capaci di mettere in comune anche al di là dei confini dello Stato-nazione. Nella visione di Ocalan, il movimento curdo potrà diventare un modello per un movimento mondiale verso la democrazia diretta, la cooperazione economica e la dissoluzione delle burocrazie statali.
Nella Rojava ci siamo riconosciuti, abbiamo ritrovato quel filo che unisce esperienze lontane e non, la Comune di Parigi, le comunità zapatiste, le piazze del 15M e Occupy. Abbiamo riascoltato le voci di quei visionari palestinesi per cui “la terza intifada sarà globale o non sarà affatto”. Per tutte queste ragioni abbiamo deciso di andare a Suruç, la città gemella di Kobane oltre il confine turco-siriano, per cercare le connessioni con la nostra storia e costruire un’opposizione comune all’austerity ed alla guerra. Sappiamo bene che la solidarietà internazionalista è inutile se non lottiamo nei nostri territori per liberare noi stessi dal sistema di sfruttamento e di dominio.
“Guerra e crisi”: mettere in discussione questo binomio significa reinventare modelli di coesistenza differenti, di integrazione non unilaterale, significa chiudere i tanti ghetti in cui finiscono i migranti in fuga dalla guerra quando sopravvivono alle tragiche traversate del Mediterraneo.
Andiamo anche per capire come viene affrontato l’arrivo di migliaia di profughi in un sistema di accoglienza autogestito ed in assenza della cooperazione internazionale. Andiamo alle porte dell’Europa per cercare di creare nuove connessioni e nuove prospettive con i movimenti euro mediterranei. Andiamo immaginando un nuovo movimento no war e lo vogliamo fare insieme alle tante delegazioni di cui si compone la staffetta.
Partiamo per Suruç con un gran desiderio di formazione politica e per continuare ad agire e sognare insieme a loro. Partiamo per rompere l’isolamento in cui il PKK è stretto da anni, per costringere le istituzioni europee a togliere il Partito dei lavoratori curdi dalle liste del terrorismo internazionale e ottenere il riconoscimento politico dei Cantoni della Rojava.
Viva la resistenza di Kobane!
Staffetta Romana per Kobane