di Luigi Lorusso
[illustrazione donata da Aladin Hussein al Baraduni]
Ora. Ora ci sono io, seduto davanti al computer. Davanti a me, la stampa del disegno di Aladin. Si sentono dei tuoni, ogni tanto controllo per vedere se è iniziata l’invasione di Gaza.
Sono solo in casa e non so nemmeno quante volte si è ripetuta questa scena. Sto per scrivere il pezzo per Laspro, siamo in ritardo e manco solo io. Di là in cucina, prove di scrittura calligrafiche, una frase ripetuta: «La nostra scrittura si nutre…» eccetera.
Tre, quattro anni. Sono in macchina, sulla Tiburtina, sto per andare in tipografia e mi accorgo che sulla sinistra c’è un cartello che indica la cartiera dove è prodotta la carta su cui è stampata la nostra rivista. Da lì poi finisce in tanti di quei posti diversi. Nella maggior parte dei casi siamo noi stessi a portarcela, e gira e gira, e da lì nascono le storie che scriviamo e rimettono in moto il ciclo.
Stesso periodo, casa sul Mandrione che affaccia su un pezzo di acquedotto romano, con Cristian e Sabina discutiamo del perché e sul come destinare alcuni pezzi alla descrizione di quartieri della città. Tornano in mente le volte che siamo stati in ognuno dei posti di cui ci occuperemo. Picchetti, cene, sedie messe a cerchio o gruppone con secchi, colla e spizzarsi la strada.
Un mesetto fa, le facce incontrate dopo, nomi nuovi, lista più lunga, sedute attorno a un tavolo a discutere, per fare insieme quello che finora ha fatto uno. Il tavolo sta in una sala, che sta dentro un edificio, che sta dentro un quartiere. Proprio non ci si riesce a vedersi in un posto più tranquillo. File di bottiglie suggellano un patto nuovo e orizzontale.
È inverno ma non fa tanto freddo, siamo sulla strada, fuori da qui il traffico scorre lentissimo. Un pesce arrostisce su un improvvisato barbecue di cemento, è buio e nemmeno vediamo le nostre facce. Questo stesso spazio non sarà più agibile tra solo pochi giorni, ma secondo Giusi era il posto giusto dove andare. Non troverà spazio dentro una storia, forse, o forse sì. La strada è sempre quella di cui sopra.
Torino, un acquazzone sul parco del Valentino, ma non abbiamo fatto seicento chilometri per nulla. Fermo, spaghetti e scambio di indirizzi con Stefano Tassinari. Bologna, la neve con il Duka e la stanza dove nasce Eymerich, a tu per tu con Valerio Evangelisti. E L’Aquila, quei fogli dentro un magazzino, la maglietta sfoggiata tra le strade della città vecchia di Nablus o tra i vicoli di Napoli.
Parte da qui, ritorna qui. Cinque anni (e mezzo) di parole e immagini, ma soprattutto di incontri e anche di scontri, ci riportano a quella vecchia frase, ormai fatta nostra. Siamo un soggetto collettivo e in divenire. Abbiamo bisogno di costruire relazioni ma a volte per farlo c’è bisogno di reagire. Facciamo una rivista che è fatta di storie, ma per farla bisogna vivere e conoscerle. Siamo un gruppo ma siamo anche individui. Siamo immersi nei rumori della metropoli e andiamo alla ricerca di spazi selvaggi. C’è tutto questo, la metà e il suo doppio, perché quelle strade hanno ancora un sacco di cose da raccontare e noi siamo qui per questo.
La nostra scrittura si nutre di suole consumate e copertoni usurati: vibra solo se in movimento.
L’ha fatto per cinque anni (e mezzo), continua a farlo.
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