Afghanistan. Maryam Rawi (RAWA): «Impossibile la democrazia senza indipendenza e giustizia»

di Patrizia Fiocchetti

La voce di Maryam al telefono è afona causa gli innumerevoli incontri che in questi giorni la vedono impegnata in molte città italiane, a illustrare la condizione dell’Afghanistan e del suo popolo. Maryam Rawi, 39 anni e due figli è membro dell’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA), la più antica formazione politica del paese, da anni attiva in regime di clandestinità.

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Foto di Carla Dazzi

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Palestina, obbligati a resistere – parte V

Campo Profughi Aida: la resistenza vive nell’aspirazione al ritorno nei villaggi natii

di Patrizia Fiocchetti

La chiave in ferro sormonta l’entrata del campo di Aida a Betlemme, sotto di essa passano i visitatori, una simbolo potente dell’aspirazione che dal 1948, anno di fondazione del campo, si tramanda di padre in figlio: far ritorno ai villaggi natii. Di fronte il muro si erge grigio e incolore e corre parallelo al campo; un bimbetto di pochi anni è fermo lì accanto, serio e silenzioso non risponde ai nostri inviti ad avvicinarsi. Poi ne arrivano altri e ridendo lo trascinano via con loro.
«Il Campo di Aida nasce da un primo nucleo di 400 profughi della Nakba provenienti da 27 villaggi palestinesi. Qui all’epoca c’erano solo una chiesa e un caffè» così esordisce Munther Amira, rappresentante del comitato di resistenza popolare di Aida. «Sono 66 anni che viviamo qui, affrontando l’occupazione israeliana attraverso la resistenza che gli opponiamo nella prospettiva di migliorare le nostre condizioni di vita, anche a dispetto di una situazione politica che peggiora di giorno in giorno».
Entriamo nel campo, Munther indica la chiave all’entrata. «Quando i nostri padri, i nostri nonni sono stati costretti ad abbandonare le loro case, hanno portato con loro le chiavi nella profonda convinzione che molto presto avrebbero fatto ritorno. Un’idea che negli anni si è trasformata in una speranza talmente radicata in noi e poi nei nostri figli da tenere vivo il senso di appartenenza a quell’universo a cui siamo stati strappati. La chiave mostra al mondo intero il nostro sogno ma anche la nostra determinazione. Dei 27 villaggi solo alcuni esistono ancora, come Zacharia e Beil Jabril nella provincia di Gerico abitati adesso da israeliani».

Panorama di Aida Camp

Panorama di Aida Camp

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Palestina, obbligati a resistere – parte IV

Campo profughi di Balata, Nablus: il dovere di vivere

di Patrizia Fiocchetti

qui la prima, seconda e terza parte del reportage in Palestina

20140805_Nablus_Balata7Nablus dal 1995 città autonoma ovvero in Zona A, è completamente circondata da insediamenti israeliani. Tutte le città palestinesi sono soggette a restrizioni nel movimento ma Nablus è quella maggiormente colpita. Ribattezzata dai palestinesi “montagna di fuoco” per la sua indomita resistenza durante la seconda Intifada – per gli israeliani “capitale del terrorismo”- e paralizzata da una crisi economica che ha portato alla chiusura di molte fabbriche di sapone, per cui è famosa, di mobili e laterizi, Nablus ospita il più grande campo profughi palestinese, Balata.
Dal 1950, anno della sua costituzione, Balata occupa l’invariata area di un km quadrato alla periferia dell’antica città cananea di Shechem e accoglie le famiglie originarie di Jaffa, più del 50%, della pianura centrale della Palestina e della Galilea, vittime della Nakba. Secondo l’ultimo censimento del 2013 nel campo vivono 29 mila persone in moduli abitativi che anno dopo anno a fronte dell’aumento demografico, si sono sviluppati in senso verticale. Palazzi altissimi, divisi gli uni dagli altri da vicoletti dove la luce del giorno arriva pallida, in cui a malapena si riesce a passare e solo uno dietro l’altro dando un senso di vertigine claustrofobica che non ti abbandona. Ma è proprio a Balata che la prima e la seconda Intifada ricevettero il loro status politico di resistenza popolare. Continua a leggere

Palestina, obbligati a resistere – parte III

Il villaggio di At-Tuwani: dove esistere è resistere e resistere è esistere

di Patrizia Fiocchetti

Qui la prima e la seconda parte

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In rosso, l’area C della Cisgiordania (fonte: B’tselem)

Sud della Cisgiordania, provincia di Hebron. Transitiamo accanto alla zona dove sparirono i tre giovani coloni, la via è bloccata per impedire il passaggio dei palestinesi verso nord. Già da tempo gli israeliani sono impegnati nella costruzione di una superstrada che conduce verso il Mar Morto tagliando a metà i territori palestinesi.
Sulla cima di una collina si intravede una torretta di guardia, segno inequivocabile della presenza di una base militare, altro sistema utilizzato per la confisca delle terre palestinesi. Siamo in area C sotto il completo controllo israeliano, dove i palestinesi residenti sono soggetti alla legge militare. L’espressione magica è “motivi di sicurezza”, e seppur permesso ai palestinesi appellarsi alla Corte Suprema israeliana per far valere i propri diritti di proprietà, difficilmente gli verranno restituite: nel 2013 il governo ha riconosciuto ai militari il diritto di esproprio di terre. Tra un anno o due invece delle postazioni militari si vedranno già i primi nuclei dei nuovi insediamenti che giorno dopo giorno, acro dopo acro si annetteranno altra parte dello Stato palestinese.
L’area C, dove vivono 297 mila palestinesi, rappresenta il 62% della Cisgiordania. Militari e coloni, il cui numero è in aumento con l’espandersi degli insediamenti, vi spadroneggiano usando contro i palestinesi tattiche coercitive e violente con il chiaro obiettivo di costringerli ad abbandonare “spontaneamente” le loro terre. Qui la resistenza degli uomini e delle donne assume i contorni di una quotidianità che si trasforma nell’esistenza stessa.

All’inizio della strada che conduce ad At-Tuwani c’è un checkpoint di soldati israeliani. Hanno fermato un trattore guidato da un uomo anziano con seduto accanto un adolescente. Li osserviamo in silenzio mentre gli controllano i documenti, gli fanno delle domande, probabilmente sempre le stesse a cui l’uomo pazientemente risponde per poter avere il permesso di recarsi a coltivare i suoi campi.
20140807_At-Tuwani_6 (1)Ad accoglierci al villaggio c’è Abdel Nourani coordinatore dei comitati popolari di resistenza non violenta a sud di Hebron. «At-Tuwani conta 350 abitanti. Fino al 2008 qui non c’erano costruzioni a parte due o tre case. Quello che vedete è frutto delle nostre attività di resistenza non violenta». Abdel è nato qui, dove giunsero i nonni fuggiti dal loro villaggio vicino Beersheva durante la Nakba (catastrofe) nel 1948. Ci fa visitare At-Tuwani che si sviluppa in alto tra le brulle colline. «Nel 1999 venne dato l’ordine di abbandonare i villaggi di tutta questa zona che doveva essere trasformata in area di addestramento militare. Si è scatenata un’ondata di violenza indicibile, gli abitanti sono stati caricati a forza sui camion, una vera e propria deportazione. Ma tutto ciò rispondeva a una chiara strategia sionista, ancora in atto. Le colline a sud di Hebron sono delimitate a nord dalla bypass road» il nuovo sistema di strade adottato da Israele fin dal 1970 è quello di bypassare le città e i villaggi palestinesi, collegando direttamente gli insediamenti tra loro e alle grandi città israeliane «e a sud dalla linea verde, i confini del 1967, l’obiettivo è il trasferimento dei palestinesi che qui risiedono nelle aree a nord della bypass road, per liberare la zona delle colline a sud di Hebron dalla nostra presenza».
20140807_At-Tuwani_2 (1)«Siamo sparsi in piccole comunità. At-Tuwani è la più grande e anche la più rappresentativa poiché è la porta di accesso alle colline. Le persone campano di agricoltura e pastorizia e distruggere questo mondo è semplicissimo: basta dichiarare le nostre terre fire zone. Nel 1999 noi decidemmo di resistere, di non cedere e questo mentre era già in atto l’altra forma di occupazione attraverso la costruzione selvaggia degli insediamenti lungo il percorso dell’autostrada, con il chiaro intento di tagliare la via di comunicazione verso il nord usata dai palestinesi che vivono in questa zona».
At-Tuwani fu oggetto di attacchi continui proprio a causa della posizione considerata strategica. Ma la notizia della deportazione aveva raggiunto alcune organizzazioni pacifiste israeliane che si recarono nella zona rompendo il silenzio intorno a ciò che stava accadendo e affiancandoli in un’azione legale davanti alla Corte suprema israeliana che dopo quattro mesi decretò il rientro degli abitanti nelle loro case. «Fu un grande successo ottenuto grazie all’attenzione internazionale che si focalizzò sulla nostra causa. Ad At-Tuwani abbiamo continuato a costruire abitazioni, infrastrutture. Siamo l’unico villaggio ad avere strade, elettricità, accesso diretto all’acqua di cui usufruiscono gli altri villaggi della zona che vivono in condizioni decisamente peggiori. At-Tuwani è inserito in un piano regolatore che non cessiamo però di “forzare”: l’ultimo esempio è l’asilo nido, l’edificio all’ingresso del villaggio, in un’area dove non avremmo il permesso di costruire. I militari israeliani si sono presentati per portare via il materiale edile ma le nostre donne si sono messe davanti alle ruspe e con i loro stessi corpi hanno impedito l’esproprio».
Abdel ci guarda, occhi scuri profondi e tranquilli. «At-Tuwani era un villaggio come gli altri. Ma ha deciso di sfidare l’occupazione militare: le intimidazioni, la violenza e gli arresti perché diciamo no a chi ci nega la libertà di movimento, a chi ci ruba la terra, ci demolisce le case. Teniamo testa alle logiche aggressive dei coloni israeliani, i più violenti della West Bank poiché seguono un’ideologia nazional-religiosa in cui si teorizza che queste terre siano state donate loro da Dio. Ci attaccano fisicamente, distruggono le nostre proprietà, avvelenano i nostri pozzi uccidendo le nostre bestie, bruciano i nostri campi, tutto ciò con la protezione dei militari che non possono neanche sfiorarli poiché i coloni sono soggetti alla legge civile. Ed ogni denuncia è inutile: nessun poliziotto israeliano andrà mai a chiedere conto a un colono di un sopruso commesso contro un palestinese».
«La forza che prendemmo da quel primo successo ci convinse che la strada da seguire era quella della resistenza pacifica. Ma fu una decisione anche politica poiché uno degli obiettivi non dichiarati dell’occupazione è spingere i palestinesi a rispondere in maniera violenta dando così al sistema sionista l’alibi per intensificare la pulizia etnica. I palestinesi usano la forza? Sono dei terroristi. Pertanto anche se difficile poiché le sirene della vendetta hanno un ben più potente richiamo, l’azione non violenta è stata la scelta irrinunciabile legata alla nostra ferma volontà di restare. Nessun regalo all’occupazione, anche quando si trattò di affrontare la costruzione del muro nel 2006».
Eretto lungo l’autostrada per una lunghezza di 41 km, dalla colonia di Carmel a quella di Baia, il muro impediva ai palestinesi l’accesso a un’ampia zona della Cisgiordania. «Per un anno e mezzo con cadenza settimanale abbiamo tenuto manifestazioni di protesta pacifiche mentre in parallelo portavamo avanti l’azione legale. Una prima decisione della Corte suprema sentenziò la legalità della costruzione del muro; noi proseguimmo nella nostra azione. Nel 2009 la sentenza girò a nostro favore e il muro fu completamente abbattuto».
«La resistenza non violenta è un cammino difficile da mantenere e l’appoggio internazionale è importante poiché per questo tramite la nostra verità può raggiungere l’opinione pubblica di altri paesi, soprattutto dell’Unione Europea e Stati Uniti. Occorre che si comprenda ciò che i palestinesi stanno soffrendo dal 1948. La campagna mediatica sionista ha distorto i fatti storici e quindi il pensiero comune. Quando i palestinesi si difendono militarmente dall’attacco genocida dello stato occupante come sta avvenendo a Gaza, vengono etichettati immediatamente di “terrorismo”. Eppure si tratta di resistenza legittima, riconosciuta anche dal diritto internazionale. Ma il diritto viene sospeso quando si tratta dei palestinesi. Anche se mi rendo conto che parlare di norme internazionali è assurdo trattandosi di una valigia che gli americani spostano o depositano secondo gli interessi che li coinvolgono».
Sorride. «Dunque, vi aspetta un compito importante, quello di farci conoscere. Di raccontare della nostra quotidiana resistenza. Quella delle nostre donne che lavorano nei campi ma sono le attiviste più coraggiose e determinate, insostituibili nell’azione non violenta. Quella dei nostri figli che vanno a scuola tutti i giorni sfidando la rabbia dei coloni e i loro sassi. Come i bambini del villaggio di Tula che passano accanto a due insediamenti di fanatici, scortati dai militari e controllati dai nostri giovani amici italiani di Operazione Colomba che ne salvaguardano l’incolumità; i nostri figli fanno dell’istruzione la loro arma contro l’occupazione. Ognuno di noi è consapevole del ruolo che ricopre nella resistenza contro di essa».
«Immaginate vivere ogni minuto, di ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno della vostra vita in un regime di occupazione, di apartheid; soggetti a umiliazioni, privazioni, furti, maltrattamenti, detenzione. A Gaza ti uccidono una volta. Qui ti uccidono ogni minuto, di ogni ora, di ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno della tua vita. Il valore della resistenza non violenta sta nell’esistenza stessa di ogni singolo palestinese».

5 anni (e mezzo) di Laspro

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di Luigi Lorusso

[illustrazione donata da Aladin Hussein al Baraduni]

Ora. Ora ci sono io, seduto davanti al computer. Davanti a me, la stampa del disegno di Aladin. Si sentono dei tuoni, ogni tanto controllo per vedere se è iniziata l’invasione di Gaza.

Sono solo in casa e non so nemmeno quante volte si è ripetuta questa scena. Sto per scrivere il pezzo per Laspro, siamo in ritardo e manco solo io. Di là in cucina, prove di scrittura calligrafiche, una frase ripetuta: «La nostra scrittura si nutre…» eccetera.

Tre, quattro anni. Sono in macchina, sulla Tiburtina, sto per andare in tipografia e mi accorgo che sulla sinistra c’è un cartello che indica la cartiera dove è prodotta la carta su cui è stampata la nostra rivista. Da lì poi finisce in tanti di quei posti diversi. Nella maggior parte dei casi siamo noi stessi a portarcela, e gira e gira, e da lì nascono le storie che scriviamo e rimettono in moto il ciclo.

Stesso periodo, casa sul Mandrione che affaccia su un pezzo di acquedotto romano, con Cristian e Sabina discutiamo del perché e sul come destinare alcuni pezzi alla descrizione di quartieri della città. Tornano in mente le volte che siamo stati in ognuno dei posti di cui ci occuperemo. Picchetti, cene, sedie messe a cerchio o gruppone con secchi, colla e spizzarsi la strada.

Un mesetto fa, le facce incontrate dopo, nomi nuovi, lista più lunga, sedute attorno a un tavolo a discutere, per fare insieme quello che finora ha fatto uno. Il tavolo sta in una sala, che sta dentro un edificio, che sta dentro un quartiere. Proprio non ci si riesce a vedersi in un posto più tranquillo. File di bottiglie suggellano un patto nuovo e orizzontale.

È inverno ma non fa tanto freddo, siamo sulla strada, fuori da qui il traffico scorre lentissimo. Un pesce arrostisce su un improvvisato barbecue di cemento, è buio e nemmeno vediamo le nostre facce. Questo stesso spazio non sarà più agibile tra solo pochi giorni, ma secondo Giusi era il posto giusto dove andare. Non troverà spazio dentro una storia, forse, o forse sì. La strada è sempre quella di cui sopra.

Torino, un acquazzone sul parco del Valentino, ma non abbiamo fatto seicento chilometri per nulla. Fermo, spaghetti e scambio di indirizzi con Stefano Tassinari. Bologna, la neve con il Duka e la stanza dove nasce Eymerich, a tu per tu con Valerio Evangelisti. E L’Aquila, quei fogli dentro un magazzino, la maglietta sfoggiata tra le strade della città vecchia di Nablus o tra i vicoli di Napoli.

Parte da qui, ritorna qui. Cinque anni (e mezzo) di parole e immagini, ma soprattutto di incontri e anche di scontri, ci riportano a quella vecchia frase, ormai fatta nostra. Siamo un soggetto collettivo e in divenire. Abbiamo bisogno di costruire relazioni ma a volte per farlo c’è bisogno di reagire. Facciamo una rivista che è fatta di storie, ma per farla bisogna vivere e conoscerle. Siamo un gruppo ma siamo anche individui. Siamo immersi nei rumori della metropoli e andiamo alla ricerca di spazi selvaggi. C’è tutto questo, la metà e il suo doppio, perché quelle strade hanno ancora un sacco di cose da raccontare e noi siamo qui per questo.

La nostra scrittura si nutre di suole consumate e copertoni usurati: vibra solo se in movimento.

L’ha fatto per cinque anni (e mezzo), continua a farlo.

Ps: per continuare, però, c’è bisogno di soldi, che vi chiederemo, in diverse forme. Abbonandovi, per 10 euro l’anno. Partecipando alle iniziative che faremo a Roma, in centri sociali o altri spazi amici. Sottoscrivendo, da 1 euro in su, online dal nostro blog oppure di persona nelle nostre cassettine. Ci servono 2000 euro per fare Laspro per tutto il 2015.