«Scritture militanti per raccontare le lotte» Intervista a Paola Staccioli

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano ArmatiChristian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Paola Staccioli (qui quella a Christian Raimo e quella a Cristiano Armati).

di Luigi Lorusso

staccioli2Paola Staccioli, scrittrice e curatrice di diversi libri che raccontano la storia dei movimenti di opposizione in Italia attraverso la narrativa o quella che si può definire storia raccontata, da In ordine pubblico fino a Sebben che siamo donne, è da anni impegnata a creare e rafforzare collegamenti tra il mondo della cultura e quello delle lotte sociali. A lei chiediamo il motivo di questo impegno.
Da diversi anni ti occupi di comporre una “storia del presente”, dei movimenti di opposizione e delle loro lotte, non solo attraverso i documenti storici, ma anche attraverso forme artistiche e letterarie. Perché pensi che la letteratura, il teatro, l’arte aiutino a comporre un quadro di questa storia?
«Giustamente dici “non solo”, nel mio lavoro i due aspetti, quello della storia e quello della narrativa non si escludono ma si rafforzano a vicenda. Io credo che un racconto, uno spettacolo teatrale possano raggiungere un pubblico più vasto rispetto a un documento storico e che arrivino ai sentimenti oltre che alla ragione, con un approccio più diretto e questo permette, forse paradossalmente, di rendere più concreti quei movimenti, quelle lotte che si vogliono raccontare. I due aspetti devono essere collegati: fin dal primo libro che ho curato, In ordine pubblico, ci sono sempre i racconti, ma anche schede storiche che ne spiegano il contesto, dall’ultimo, Sebben che staccioli1siamo donne è nato addirittura un sito e un centro di documentazione. La narrativa permette maggiori libertà: può spiegare meglio le motivazioni personali di chi lotta, il contesto umano che può spingere, a volte, anche a infrangere la legge, come spesso avviene nei movimenti di lotta, senza tra l’altro doversi preoccupare di eventuali conseguenze giudiziarie, come dovremmo fare invece in una cronaca realistica».
Hai costituito insieme ad altre persone la fondazione La Rossa Primavera che si occupa della storia della lotta di classe e del presente delle lotte sociali e politiche. Vuoi spiegarci le sue finalità?
«La fondazione nasce per rendere più continuo e collettivo questo lavoro che ho iniziato, insieme ad altri compagni e compagne, da ormai una quindicina d’anni. L’idea c’era già da molto tempo, poi è stata concretizzata adesso anche per una mia situazione personale di malattia (Paola Staccioli ne parla sul blog Le O2 con Serena Ranieri, ndr), che mi ha portato a voler garantire che questo lavoro fatto non si disperdesse. I due campi di attività, la memoria e il presente delle lotte devono marciare insieme, diramandosi poi nei vari aspetti. La fondazione si occupa delle lotte di classe dagli anni ’60, vogliamo occuparci di ciò che è meno rappresentato, meno raccontato e rischia di andare perso. Vogliamo valorizzare la memoria di quella parte della società che si è identificata con i percorsi di trasformazione politica e sociale. Questo tramite un archivio cartaceo, digitale, video che deve raccogliere tutto il materiale, ma deve anche essere qualcosa di attivo, tanto che abbiamo definito il collettivo ArchiviAzione: rendere fruibile il materiale non basta. Vogliamo rendere questa memoria viva, che venga usata anche per il presente delle lotte, che è poi il punto principale: capire il passato serve per comprendere quali sono i punti dell’oggi e del futuro. La fondazione vuole creare anche una rete di solidarietà e di sostegno alle forme di opposizione di classe a cui siamo interni. Uno dei collettivi in cui si articola la fondazione si chiama In Movimento perché vogliamo essere parte delle realtà di lotta che ci sono oggi in Italia. Un altro settore è quello della creazione di una cassa di resistenza, un fondo di solidarietà per i militanti delle lotte sociali che sempre più numerosi vengono colpiti dalla repressione».staccioli3
C’è un settore della Fondazione chiamato Di pArte – Scritture militanti. Che cosa intendi per scrittura militante? Vedi una narrativa militante oggi in Italia?
«Già la definizione Di pArte rende l’idea di una cultura non ipocritamente neutrale, ma che sia schierata, di parte appunto, che dice chiaramente da che parte sta. Riteniamo che sviluppare oggi le armi della critica con scritture graffianti sia assolutamente necessario: una scrittura che spieghi i conflitti ma che sia anche interna a essi, che guardi al presente delle lotte sociali, alle forme attuali dello sfruttamento, che racconti una condizione che molti stanno vivendo ma che è poco narrata. Vogliamo contribuire alla trasmissione delle lotte di classe dei movimenti e provare a raccontare la storia attuale dal lato degli oppressi, di chi oggi lotta e si ribella.
Esiste quindi quest’arte, questa cultura militante? A freddo verrebbe da dire che non ce n’è molta, ma se solo pensiamo a film come quelli di Ken Loach, al ruolo che ha avuto la musica in questi ultimi decenni, agli spettacoli di teatro civile, hanno supplito a delle mancanze della politica, penso ad esempio a tutto ciò che in ambito artistico è stato correlato a Genova 2001: è stato un contributo militante davvero importante. Per quanto riguarda la scrittura forse c’è stato un po’ di meno. Tutte le volte che come curatrice di libri collettivi su tematiche politiche e sociali ho contattato gli scrittori ho avuto comunque una risposta positiva. Ora stiamo scrivendo un libro di presentazione della fondazione che sarà dedicato al Fuoco: il fuoco come distruzione operata dal capitale ma anche il fuoco come lotta, come risposta, come incendio. C’è una battuta che chiude questo testo che dice: “Abbiamo bisogno di scrittori e di militanti che non abbiano paura di bruciarsi”».
Questo tipo di cultura ha un’influenza reale oggi in Italia? Non rischia di rivolgersi a una cerchia sempre più ristretta di persone?
«Sappiamo tutti che oggi ci troviamo in un periodo difficile per le lotte e i movimenti anche se c’è a mio avviso una ripresa che viene spesso sottovalutata, politica, delle lotte, ma anche culturale, sia pure nella frammentazione. C’è tutta una serie di iniziative interessanti nel prossimo periodo, di culture impegnate, forse anche troppe, un po’ disgregate. Ma non è che non ci sia niente! Parlando di cerchie, la domanda mi fa venire in mente un sasso lanciato in un lago, i cui cerchi poi si allargano. Il fatto di avere poca influenza nella società oggi non è un motivo sufficiente per non fare niente. Se tutta la sinistra di classe non riesce a essere influente nella società, io credo che i sassi nell’acqua vadano comunque gettati per far sì che questi cerchi si allarghino».

«I movimenti di lotta si raccontano in continuazione. Ma chi ne raccoglie la voce?»: intervista a Cristiano Armati

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano ArmatiChristian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Cristiano Armati (qui quella a Christian Raimo).

Cristiano Armati, scrittore e direttore editoriale di Red Star Press, è un militante dei movimenti romani per il diritto all’abitare. Non a caso, ci vediamo presso l’occupazione di via del Porto Fluviale, poco prima di un’assemblea cittadina delle occupazioni di case.

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Foto tratta da www.armati.info

Sei un militante politico e un lavoratore della cultura. Come vedi l’espressione di militanza culturale o di cultura militante?
«È difficile parlare di militanza culturale, o meglio fuorviante: io credo soltanto a un tipo di militanza, che mi piacerebbe poter definire politica, ma allo stato delle cose si può dire delle lotte sociali. Lo trovo fuorviante, perché è impensabile poter sviluppare progetti di indipendenza culturale al di fuori di una lotta. Quando parliamo di cultura è ipocrita rimuovere quello che è il vero convitato di pietra, cioè l’esclusione sociale, la subalternità economica. Quando parlo di cultura io dico sempre: “Che cosa ci faccio di un libro se non ho neppure una casa?”. Se anche il mio obiettivo fosse quello di vendere più libri, allora mi devo concentrare sul fatto che le persone abbiano la possibilità di essere pagate meglio, di avere una casa, e su quella base lì poi potersi concentrarsi sui libri, sulle tante belle cose che si possono fare nel settore culturale. Il mio modello è un medico canadese, Bethune, che quando gli chiedevano come si cura la tubercolosi rispondeva: “Con un impiego stabile e una casa decente”». Continua a leggere

«Scuole, teatri, biblioteche: l’impegno per la conoscenza» Intervista a Christian Raimo

di Luigi Lorusso

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano Armati, Christian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Christian Raimo.

Christian Raimo, scrittore, traduttore, insegnante, ha preso una forte posizione pubblica in seguito allo sgombero del palazzo occupato da richiedenti asilo e rifugiati in piazza Indipendenza a Roma. In seguito alla sua partecipazione al programma tv Dalla vostra parte su Retequattro, durante il quale ha polemicamente abbandonato la trasmissione, è nato un dibattito sulla qualità dei mezzi di informazione di massa. È stato anche oggetto di numerosi attacchi personali e di censura sulla sua pagina Facebook.
Da molto tempo prendi posizioni pubbliche, ultimamente sulla questione dei rifugiati, ma in precedenza sulla politica culturale romana o sulla scuola. Per te la definizione di intellettuale di impegno civile ha senso o è qualcosa di datato?
«Ha senso se si capisce come declinarla: una parte del lavoro intellettuale è necessariamente un lavoro impegnato, soprattutto in un contesto come quello di oggi in cui le più importanti battaglie politiche si giocano sul piano della conoscenza, dell’accesso ai mezzi di comunicazione, dell’istruzione, è quindi ovvio che fare l’intellettuale impegnato spesso vuol dire semplicemente essere militante nei campi dove questo accesso alla conoscenza è più o meno possibile. Io insegno a scuola, mi occupo di scuola, faccio parte del CdA delle Biblioteche di Roma, per me questi sono dei luoghi dove si possono fare delle battaglie. D’altra parte ho imparato, con la lezione di Tullio De Mauro, che una buona battaglia politica è quella che riesce a dare al maggior numero di persone possibile la possibilità di essere autonome dal punto di vista linguistico e quindi di conoscenza del mondo. Questo per me vale nel giornalismo, nella scuola, nella mia attività editoriale».
Che continuità vedi nel tuo lavoro, dalla scuola, alle biblioteche, al lavoro editoriale?
«Per me la scuola è un’esigenza imprescindibile della condizione umana: oltre che animale sociale io penso che l’uomo sia anche un animale pedagogico. Spesso questa esigenza diventa rachitica, non riesce a svilupparsi come dovrebbe ma penso che sia una parte essenziale dell’umano, non soltanto quindi di quelli che per mestiere fanno gli educatori, ma in tutti c’è una vocazione pedagogica. Quando non possiamo praticarla una parte di noi si spegne. Io penso che rivendicare l’aspetto educativo della vita sia fondamentale, ancora di più nella pratica politica. Pedagogia è una bellissima parola, che non ha nulla di novecentesco, di archeologico o retrospettivo, è una parola che parla di futuro, di sperimentazione».
Per quanto riguarda lo specifico delle biblioteche?
«Mi piacerebbe che le biblioteche diventassero dei luoghi di pedagogia pubblica, spesso non riescono a esserlo, i soldi stanziati per le biblioteche sono sempre gli stessi o sempre meno. Nessuno direbbe che è contro le biblioteche o contro la scuola, di fatto però se non c’è un’educazione alla lettura che le sostiene, le biblioteche sono destinate a essere luoghi per pochi. Se io dovessi stilare un programma politico in tre punti metterei in ogni quartiere una biblioteca bellissima, una scuola con una gran quantità di attività di doposcuola e di ore di recupero e un teatro attivo che fa cose belle. Secondo me questi tre centri irradianti conoscenza avrebbero nel lungo periodo una capacità di trasformazione sociale molto maggiore di altre forme di intervento pubblico».
Dopo la tua partecipazione a un programma di Retequattro, totalmente infarcito di retoriche e stereotipi razzisti, durante il quale hai deciso di abbandonare la trasmissione, pensi che ci si possa rivolgere a tutte le persone, anche quelle che sono esplicitamente razziste?
«Il mondo della comunicazione oggi ha due grosse impasse: la prima è la qualità dell’informazione per cui non c’è nessun tipo di autorevolezza, quindi di fatto il direttore di un giornale o qualcuno che inizia a twittare le cose più strampalate possono avere lo stesso tipo di consenso. L’altra impasse è che sempre di più noi guardiamo il mondo della comunicazione attraverso le lenti di due grandi multinazionali, Facebook e Google, per cui abbiamo una visione distorta dalle nostre bolle del filtro. Per me un intervento politico di qualsiasi tipo deve tenere conto di queste due impasse. Se ad esempio si dice che a Roma molte donne vengono stuprate e Il Messaggero fa una campagna per Roma più sicura e per me quella campagna è sessista, per me è inutile tentare di replicare a quel messaggio non suffragato da prove, mi è molto più utile andare a contrastare l’emittente, chi ha scritto quell’articolo, da dove viene.
È inutile contrastare il messaggio se ne divento parte, io non vado in televisione nel programma Dalla vostra parte, in cui posso avere se mi va bene 1-2 minuti in cui sono inquadrato male, non si capisce la domanda che mi fanno, possono mandare il collegamento, togliere il microfono, in cui nel gioco delle parti io rappresento l’intellettuale radical chic che mostra solidarietà ai migranti. Se ci vado è perché per me ha senso attaccare l’emittente, il modo in cui quel programma funziona. Lo posso fare se ho costruito nel tempo un’emittente più ascoltata, più autorevole. Per me non aveva senso andare in trasmissione, mostrare i cartelli, fare una protesta alla Cavallo Pazzo, se non, il giorno dopo, scrivere un pezzo su Facebook in cui ricontestualizzare il gesto che avevo fatto, raccontare la bassissima qualità dell’informazione di quel programma. È successo qualcosa, la trasmissione ha chiuso? No, però ho mostrato che quel gesto si può fare, magari altri lo faranno. L’altro giorno ho visto che un paesino di non ricordo quale provincia ha replicato a Del Debbio che voleva fare una trasmissione lì, tutta piazza e populismo, che non si prestavano a questo gioco delle parti».
Nel tuo ultimo libro Tutti i banchi sono uguali parli dell’uguaglianza nel contesto della scuola. Che valore dai a questa parola in parte desueta?
«Il libro si occupa di una cosa molto specifica e cioè di come la struttura della scuola e le politiche scolastiche attualmente non solo non riescono a contrastare le disuguaglianze di opportunità, i diritti secondo la Costituzione, ma spesso le crea o le alimenta o le riproduce. Io cerco di mostrare, dati alla mano, come nello studio, ad esempio con il meccanismo delle ripetizioni, con il consiglio orientativo della terza media, con altri tipi di dispositivi c’è una forma di classismo a scuola che continua a essere riprodotto nella scuola».

Ritorno da Kobane, cuore della rivoluzione femminista – intervista a Carla Centioni

di Patrizia Fiocchetti

«Da dove posso iniziare a raccontare? Le sensazioni sono talmente tante che ho quasi difficoltà a restituirle. È come se volessi trattenerle per riuscire ad elaborarle dandogli il giusto tempo. Essermi trovata nel luogo dove si sta compiendo la prima rivoluzione femminista è di forte emozione».
Le parole descrivono benissimo quanto colgo dal volto e dai gesti di Carla Centioni, rientrata da un mese dalla sua missione a Kobane, capoluogo del Rojava, nel Kurdistan siriano, città simbolo della lotta contro il Daesh. Ci incontriamo nell’appartamento di un caro amico, Giancarlo Scotoni che l’ha accompagnata e ne ha atteso il ritorno a Erbil, in Iraq.
Carla Centioni è la presidente dell’associazione PonteDonna che si occupa di progetti rivolti alle donne vittime della violenza maschile. Ma Carla è anche un’attivista che porta la propria esperienza e sensibilità all’interno del movimento #Nonunadimeno. E anche una mia cara amica.13901440_598584550315455_4511675929860650029_nÈ un piacere parlare di questo tuo viaggio, finalmente. Un viaggio che ci ha colti un po’ tutti di sorpresa. Nel 2015 siamo partite insieme per Kobane ed è proprio in quell’occasione che ci siamo conosciute. Partivamo alla volta di questa città appena liberata. Credo per te sia stata una emozione forte tornarci a distanza di due anni esatti. Ritrovare una Kobane trasformata. Io ne conservo le immagini di distruzione e mi interessa chiederti prima di tutto, come hai ritrovato la città.
«Quando entrammo a Kobane agli inizi di marzo 2015, era passato appena un mese dalla liberazione dal Daesh. Circolavano solo i componenti dell’Unità di difesa popolare (Ypg) e di difesa delle donne (Ypj). Ricorderai le nostre camminate sui mucchi di macerie. Ho trovato una città trasformata e sì, ho provato una profonda emozione. Kobane si è ripopolata, quasi tutti gli abitanti sono rientrati, attualmente ci vivono 40.000 persone. A parte la zona scelta per un museo a cielo aperto a testimonianza della vittoria contro il Daesh, vicino la porta che segna il confine con la Turchia, il resto della città è un cantiere. Nel corso dell’incontro avuto con il sindaco di Kobane, Muro Huseyn, ho preso visione del progetto di ricostruzione della città. Lo ho accompagnato in una visita ad un quartiere di edilizia popolare di nuova costruzione: il 21 marzo in occasione del Nowruz (Capodanno per i popoli di alcune zone e paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, che coincide con l’equinozio di primavera, nda) verrà consegnato ai figli dei combattenti uccisi». Continua a leggere

[Laspro 38] Donne che scelgono la rivoluzione – intervista a Paola Staccioli

di Luigi Lorusso (da Laspro 38 – gennaio/febbraio 2017)

Pag. 8 StaccioliSebben che siamo donne – Storie di donne rivoluzionarie è un libro uscito nel 2015 per DeriveApprodi, scritto da Paola Staccioli, scrittrice, collaboratrice di Laspro e infaticabile organizzatrice di iniziative culturali, di quella cultura che non esita a definirsi di parte e militante. Il libro, tre anni dopo Non per odio ma per amore – Storie di donne internazionaliste, si concentra questa volta sull’Italia, su dieci donne accomunate dalla militanza politica in organizzazioni rivoluzionarie armate (tranne in un caso) e dalla loro morte violenta collegata a tale militanza. L’arco temporale va dal 1970 al 2009 ma, inevitabilmente, si concentra in particolare sugli anni ’70. Il libro è completato da una esauriente appendice sulle organizzazioni citate nel libro e da una testimonianza di Silvia Baraldini, prigioniera negli Usa e poi in Italia dal 1983 al 2006 per la sua appartenenza a organizzazioni rivoluzionarie.

Il libro, scrive Staccioli, nasce «per dare un volto e un perché a una congiunzione: anche. Nel commando c’era anche una donna. Titolavano spesso i giornali qualche decennio fa. Anche. Un mondo intero racchiuso in una parola. A sottolineare l’eccezionalità ed escludere la dignità di una scelta. Sia pure in negativo».

Nel libro sottolinei l’internità delle donne ai movimenti rivoluzionari di cui facevano parte, non come un’anomalia al loro interno, per cui sui mezzi di comunicazione dell’epoca: «Da un lato vengono demonizzate, dall’altro generano romanticismo rivoluzionario». Come le dieci storie raccontate invece affermano la piena partecipazione delle donne ai loro movimenti?
«Negli anni Settanta e Ottanta in Italia molte donne hanno militato nelle organizzazioni armate della sinistra rivoluzionaria. Numericamente erano una minoranza, ma le motivazioni che le hanno spinte sono state analoghe. Eppure l’immaginario sociale ha sempre percepito in modo diverso una “donna che combatte”. Una sorta di moderna strega da demonizzare o, viceversa, da idealizzare. Una guerrigliera romantica. Del resto è quello che sta accadendo con le combattenti curde. La donna che impugna le armi si trasforma in un’idea, un mito e si perdono i contorni della sua scelta concreta, che può essere compresa solo se inserita nel contesto di un progetto collettivo di trasformazione radicale della società. Di una lotta in cui donne e uomini partecipano con gli stessi obiettivi. In Italia sono stati comunemente definiti terroristi. Anche se il vero terrorismo – bombe, stragi, tentativi di golpe – era in quegli anni quello dello Stato. Quello della strategia della tensione. Una reazione per tentare di bloccare ogni cambiamento, generare insicurezza, spostare a destra il paese». Continua a leggere

Keep calm and kick ass. Breve manuale di autodifesa digitale in chiave antisessista

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a cura di Giusi Palomba

        Come accade in ogni spazio pubblico, la rete è un luogo in cui si possono sviluppare violenze più o meno palesi, dove possono trovare terreno fertile sessismo e discriminazioni. È ormai chiaro quanto la comunicazione mediata, lungi da essere strumento di partecipazione attiva sostenuta dalla retorica della sua “bontà”, sia invece spesso esasperazione di comportamenti antisociali e distruttivi, tanto che non è più tanto strano pensare che l’hatespeech rafforzi e aggravi la violenza agita sia in pubblico che in privato.

        In quanto rivista coinvolta nelle dinamiche sociali, ci preme soffermarci in occasione di un numero dedicato alla violenza sessista, anche sulla sua versione social, così spinosa e difficile da contrastare. Si può dire che oltre all’uso ordinario che si fa dei social, esiste l’uso che ne fanno gli attivist*, che in quanto tali sono talvolta espost* in maniera significativa negli scambi e confronti in rete, poiché veicolo di contenuti sensibili e obiettivo di soggetti e realtà organizzate che fanno dell’anonimato – difficile nella vita reale – una condizione ottimale di sfogo della propria ferocia.

      È possibile vivere in maniera sana l’esperienza dei social network? Già il collettivo Ippolita parla di “informatica conviviale” per intendere una maniera consapevole di stare nella rete, ma gli scontri e gli attacchi esistono, come esistono i troll e chi sguazza nell’alfabetismo funzionale per creare scompiglio, ed è difficile incontrare spazi virtuali che ne siano davvero immuni, oltre che pericoloso dare per scontato che chi abbia più esperienza politica sia per definizione in grado di gestire lucidamente tutto ciò. Dunque come difendersi e sovvertire così la sensazione di impotenza che in questi casi riguarda in particolare i soggetti vulnerabilizzati? È una domanda aperta e non riusciremo ad esaurirla qui, ma è bene iniziare a porsela e a ragionare sui giusti strumenti.

      Ciò che possiamo già fare è riassumere in un breve manuale le esperienze maturate da chi utilizza anche i social network come strumento di diffusione di contenuti significativi e si è ritrovat* spesso davanti alla difficoltà obiettiva di uscire da un conflitto, quando non di fronteggiare una violenza vera e propria, un attacco coordinato, con conseguenze anche pesanti sia dal punto di vista psicologico che di quello della libertà di diffusione in rete di idee indipendenti. (Questo ultimo punto speriamo di riuscire a trattarlo con più calma, di approfondire successivamente, perché diventa delicato e importante esprimersi a proposito.)

     Detto questo va sottolineato che la nostra stessa presenza come avatar e la messa in condivisione di contenuti su piattaforme commerciali, ci sottopone a vivere tra le parentesi di una contraddizione insuperabile. Davvero troppo ingenuo pensare che lo scopo dei social network per come li conosciamo oggi, possa essere filantropico o che i criteri di valutazione o di risoluzione dei conflitti siano neutri o rispondano al sistema di valori che noi o la nostra comunità di riferimento riteniamo giusti e imprescindibili. In sostanza, far parte di un social network deve essere una scelta ponderata: in caso di conflitti dobbiamo aspettarci che gli interessi commerciali vengano garantiti prima dei diritti umani.

      Questa è l’enorme contraddizione che cerchiamo di rimuovere ogni giorno. Senza negare che sia possibile hackerare certe logiche, di certo non assumeremmo mai Ronald Mc Donald come nutrizionista di fiducia e nemmeno dovremmo aspettarci che Facebook sia un fedele alleato nella lotta contro il patriarcato, l’eteronormativismo, gli stereotipi di genere. Il capitalismo digitale si fa così immateriale da portarci spesso in direzioni poco percorribili. L’impegno costante dovrebbe essere messo nell’inventare spazi nuovi e liberati, anche virtuali.

       Tornando al pratico. Su Laspro si è già parlato diverse volte di rapporto coi social network, di rete, e di autodifesa digitale. Dunque lo rifacciamo da una prospettiva di genere interpellando questi stessi soggetti e collettivi amici che militano in ambienti femministi ed lgbtqi e operano in rete o la studiano. Raccogliamo spunti per una fruizione positiva di strumenti che influenzano fortemente il quotidiano, a partire dal nostro umore fino al comportamento sociale, dall’autostima alla scelta o no di collettivizzare le proprie esperienze e farne strumento di autodeterminazione.

Chiunque abbia voglia di contribuire con ulteriori punti, ci contatti alla pagina facebook di Laspro o all’indirizzo beast-it@autistiche.org.

Ecco il nostro breve manuale:

1. USA IL SUBVERTISING!

Eretica | ABBATTO I MURI – Attivista/Blog collettivo femminista

“Sono una puttana, embé?”. Utilizza i termini con cui vieni offesa per capovolgerli. Il trucco è riappropriarsi di un termine offensivo in chiave positiva, autodeterminata e libera. Sui nostri canali abbiamo iniziato con questa tecnica tempo fa ed ha funzionato. Ad esempio l’immagine del bambino atterrito e la battuta “mangia tutto che sennò arriva il gender”. Contro il body shaming abbiamo pubblicato cicatrici cosce con cellulite gambe non depilate e altro per raccontare di quel che siamo fatte in realtà. Molti altri materiali per approfondire il tema sono disponibili sul blog.

2. RISPONDI PER CHI LEGGE

LORENZO GASPARRINI – Autore di “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni“.

Rispondi per chi legge, non a chi pratica bullismo o sessismo in rete. Lascia qualcosa di utile a chi incontra quelle parole e non perdere tempo a parlare con chi non sa ascoltare. Usa l’ironia e l’autoironia per installare un utile e fertile dubbio non su quello o quella che ti offende, ma sul modo e sull’argomento usato per offendere. Sfrutta la tua risposta (una sola!) per aprire una strada a chi legge, con un nome, un link, un concetto. Rendi le sue brutte parole una bella occasione.

3. CHI TI ATTACCA E PERCHÉ?

ETHAN BONALI – attivista trans

Quando si subisce un attacco, nell’ottica di difendersi, è importante comprendere chi lo fa più che perché. Questo serve a filtrare le ripercussioni psicologiche, risparmiare energie ed essere efficaci in una eventuale risposta. È importante, infatti, anche saper decidere se vale la pena o no rispondere.

  • Cercate di capire chi vi sta attaccando, magari andando a guardare il suo profilo Fb, analizzando il suo lessico, lasciandolo esporsi per farlo sbilanciare.
  • Non ponetevi mai in una posizione di svantaggio come giustificare la vostra identità o orientamento sessuale o lasciandovi definire.
  • Non cancellate conversazioni spiacevoli ma rileggetele dopo del tempo, a mente fredda, per imparare dagli errori, per individuare i vostri punti deboli e quelli di chi vi attacca poiché, solitamente, le argomentazioni sono sempre le stesse. Riesaminare le dinamiche vi renderà più forti, consapevoli e pronti in futuro.
  • Praticate il distacco da chi vi attacca mediante l’ironia e non andate mai sul personale perché questo crea un legame fortissimo con l’interlocutore.

Il punto che segue, a cura di un collettivo (intervistato anche *qui* e *qui*) impegnato negli ultimi tempi a studiare anche gli effetti neurocognitivi della presenza in rete, specie in caso di scambi/scontri sterili e senza soluzioni, potrebbe essere il primo e quello da cui prescindono tutti gli altri:

4. FAI CASO AI TUOI STATI D’ANIMO E AL TEMPO CHE PASSA

Collettivo Ippolita. Autore di Nell’acquario di Facebook. Ippolita.net

Un’altra notifica, un altro messaggio! Mi innervosisce, o mi eccita? Lo stavo aspettando? Le piattaforme digitali commerciali sono strutturate in modo da richiedere sempre maggiore attenzione e quindi impiego di tempo, tendono a farci entrare in circuiti di interazione automatica. I sistemi di notifica sollecitano l’attenzione, modificando le concentrazioni ormonali nei corpi umani e quindi l’umore. Perdere la nozione del tempo mentre si utilizzano dispositivi elettronici è un chiaro segnale di assuefazione. È possibile educarsi a rallentare e diminuire le interazioni automatiche, limitare la quantità di notifiche e quindi il tempo speso in uno stato di flusso.

«La mia Roma distopica nelle mani di un potere oscuro e devastante»: incontro con Luca Palumbo autore di “Fango”

 

di Patrizia Fiocchetti

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Un romanzo fin dalle prime battute può colpire come un pugno allo stomaco, oppure con studiata lentezza pagina dopo pagina farti trovare immerso nell’inquietudine. Fango – Distopia in pochi atti il nuovo libro di Luca Palumbo (Lorusso Editore, 370 pagine, 14 euro), risponde decisamente alla seconda categoria dove il fango, appunto, è reale e palpabile ma anche metaforico dell’impoverimento morale e concreto degli uomini.
Roma è la protagonista. Precisamente Roma est e ancora più precisamente Torpignattara che funge anche da palcoscenico, sulle cui strade coperte di fango, appunto, agiscono i personaggi mai del tutto buoni o cattivi, persi in loro stessi, immersi in una precarietà senza via di scampo e in un tempo storico e fisiologico sospeso che per l’autore sembra non avere alcuna importanza.
L’Italia non esiste né come stato di diritto, né come riferimento istituzionale. Roma si è staccata da tutto, è nelle mani di un sindaco fantasma che esercita un potere violento e definitivo, direi osceno per quanto crudo e il cui fine ultimo mira all’annullamento di tutte le forme di dissenso, confronto e contrasto a un progetto più ampio. E Roma est diventa il ghetto ove racchiudere gli sconfitti, sempre più numerosi, i diseredati, i paria di questa nuova società oligarchica, per poi annientarli.
«Ho immaginato una Roma bagnata da una pioggia incessante con il fango che inizia a coprire e poi imbrattarne le strade, i quartieri mano a mano che la macchina violenta del potere che la governa si fa più brutale». Con Luca Palumbo siamo seduti su una panchina del parco che circonda il lago Viscosa vicino l’ex Snia. «Il fango è per me simbolico della decadenza di questa città. Nella mia idea di romanzo distopico, l’atmosfera apocalittica ha nell’elemento naturale e climatico una valenza immediata, quasi figurativa».
E perché Roma Est?
«Be’, sono napoletano e cresciuto in Molise. A Roma est ho vissuto fin dal mio arrivo nella capitale». Ride. «E ci vivo tuttora. È la zona di Roma che conosco meglio, dove mi sono interessato a battaglie popolari come quella che ha portato a salvare il lago Viscosa, img_2040-come-oggetto-avanzato-1-1024x768appunto. Nel romanzo, invece, immagino che quest’area venga strappata con la forza ai movimenti di quartiere e si arrivi alla realizzazione di quel progetto di speculazione edilizia ideato nei primi anni ‘90: la costruzione di una città-gioiello, accessibile solo ai ricchi e ai nuovi padroni di Roma. Inoltre, per me questa città è anche simbolo di una crisi generale, sociale ed economica, non solo a livello nazionale ma anche europeo: qui si sono consumati conflitti sociali estremi però sconfitti. Questa Roma distopica è una zattera di pietra (titolo di un capitolo, omaggio all’omonimo libro di José Saramago, nda), che vaga in un mare sconosciuto, trasformata in una Città Stato».
Nel libro parli di un progetto perseguito da questo sindaco che non ha né un nome né un volto, che si muove su linee marcatamente razziste e xenofobe. Eppure, leggendolo, non ho avvertito dietro tutto questo una, passamela, ideologia o condotta politica quanto piuttosto un mero esercizio che risponde alle logiche di mercato.
«È vero, ho rappresentato una Roma dove il senso politico dell’atto istituzionale è azzerato sfociando in un confronto sempre più aspro e primitivo, verso l’annullamento dei deboli e delle loro rivendicazioni. Il potere nel libro agisce per annientare, non più per sottomettere, cancellare tutte le realtà e gli individui che si oppongono alla sua intenzione di speculazione edilizia e territoriale». Fa una pausa. «Ho messo su carta le mie paure di fronte alla realtà di un sempre crescente numero di persone che perdono la casa e si trovano ad affrontare una realtà alloggiativa drammatica di cui, però, l’altra faccia della medaglia mostra un sistema di potere economico forte nelle mani della cosiddetta imprenditoria sociale che specula attraverso la rete dei residence di emergenza abitativa sulla disgrazia di chi viene sfrattato».
Nel libro parli molto dei movimenti di lotta sociali e per la casa, appunto, ma le tue parole per quanto non aspre, sottendono una chiara critica che rendi attraverso i dialoghi dei protagonisti. Vorrei citare una frase, a pagina 37: “Ognuno di noi è rimasto isolato” quasi a sancire una sorta di fallimento nell’esperienza aggregativa dei movimenti.
wp_20141122_031«Obiettivo del libro è sempre stato mettere in risalto le contraddizioni che ho visto, e vissuto, all’interno dei movimenti di lotta in generale, con attenzione particolare ai centri sociali. Un fallimento? Forse, sicuramente la mia delusione di fronte a quella volontà di isolamento che li ha resi una sorta di circolo esclusivo, settario, privo di apertura mentale al confronto con realtà alternative. Dinamiche che mi lasciano perplesso e mi hanno allontanato poiché ho assistito alla trasformazione dei movimenti in una sorta di gruppi che agiscono per il mantenimento di una sorta di fittizia supremazia. Pertanto frammentazione e confusione ne sono i prodotti sul piano dell’azione sociale. Questa condizione nel libro l’ho portata alla sua conseguenza estrema: gli individui di fronte alla propria coscienza decidono di battersi fino alla fine. Ma sono consapevoli della doppia sconfitta che stanno subendo».
Quindi la resistenza al potere diviene in Fango moto e azione individuale?
«È esatto dire che, pur parlando in diverse parti del libro di resistenza al potere oscuro e indefinito, questa non esiste, è solo accennata. Una resistenza non organizzata, confusa, conseguenza del fallimento della lotta dei movimenti. Vuole essere un messaggio provocatorio, perché lo spiraglio che lascio aperto, il mio desiderio vero, è che le singole scelte di opposizione confluiscano in una azione corale e condivisa».
Vorrei ritornare al tema a mio avviso centrale del libro: il potere, o meglio un certo tipo di agire del potere. Un’altra frase che mi ha colpito è: “L’ideale collettivo contemporaneo è il potere”. Il potere che rappresenti vive di vita propria e non sembra importante chi lo incarna.
«È senza volto perché in realtà dietro ha sempre le stesse facce. È un potere che si autoalimenta ma con quella frase è come se proponesse di appropriarsi dei valori della parte che sta combattendo per poterla annientare in maniera più rapida ed efficace. L’esercizio del potere nel corso del libro va crescendo e si esprime con modalità sempre più barbare e feroci: deve stringere i tempi della pulizia sociale».
I personaggi maschili sono interessanti e quelli cattivi tratteggiati con dei chiaroscuri che li rendono estremamente umani per quanto alla fine tutti perdenti. Spiccano le donne, tre, così nettamente differenti tra loro. Qual è quello in cui ti riconosci e quello a cui affidi le tue speranze?
«Decisamente Matteo Furst è il carattere che mi rappresenta. Protagonista del mio primo romanzo Un maledetto freddo cane, in Fango è una figura di secondo piano ma è maturato e copertina-fbpur sempre visionario e pessimista, nel corso della storia acquista consapevolezza di quanto gli accade intorno e prende posizione. Quello, invece, a cui affido la mia speranza è Dago (omaggio a John Fante e al suo romanzo Dago Red, nda), il ragazzo che subisce il tradimento di chi credeva un amico, e le percosse, ma che fa suo un determinato spirito di riscatto. Per quanto riguarda i personaggi negativi, Molise il traditore-infiltrato e Castracane l’ex poliziotto mi sono ispirato al lavoro di Valerio Evangelisti, che proprio nella creazione dei ‘cattivi’ è un maestro. Li rende talmente umani da spiazzare il lettore».
E le donne?
«Nanà è una solitaria, con un carattere lineare e un passato che ritornerà a incrociare la sua strada. Ha fatto parte di un gruppo anarchico insieme al suo amico Gino Pilàr, e ha condotto operazioni di sabotaggio. Poi c’è Sakine, una rifugiata politica curda che fugge dal centro d’accoglienza in cui è ospite prima che venga trasformato in una prigione. Per lei mi sono ispirato a una profuga conosciuta nel centro in cui ho lavorato e di cui non conosco la storia. Sakine è forte, reduce da tante battaglie, e un sostegno per i personaggi con cui si trova a scappare per le strade di Roma est. Intorno a lei si realizza l’unico momento collettivo del libro. E infine la centaura dal mantello nero, androgina e spietata, l’unica che non ha sfaccettature caratteriali e priva di alcun messaggio. È l’incarnazione del nichilismo puro».
In conclusione, Roma Città Stato dove, dici, non dovranno più esistere scontri o contrasti sociali. Pertanto repressione, uccisioni e arresti di massa, e quindi la ghettizzazione. Questo il ruolo di chi per conto del potere ne gestisce la macchina di violenza. Si cancella l’idea o anche la sola intenzione di confronto perché non ci può essere nulla di alternativo a quello che è il desiderata del potere. Tutto ciò avviene a Roma est, invasa dal fango che nasconde molte altre nefandezze. Nessuna speranza, quindi?
«È un romanzo distopico, ma ho scelto un finale che lascia aperto uno spiraglio di speranza e non si concluda con l’immagine della vittoria del potere nella beffarda manifestazione della propria crudeltà proprio qui, davanti al lago Viscosa dove tanto tempo prima la gente aveva vinto. Fango è il primo romanzo di una trilogia. E non so ancora se il clima nella Roma Città Stato migliorerà».

Le prossime presentazioni di Fango saranno:
venerdì 16 settembre ore 19.30 a Farfa (RI) nel corso di Liberi sulla Carta – Fiera dell’editoria indipendente;
venerdì 23 settembre ore 19.30 da Chourmo in via Galeazzo Alessi 122 a Roma (zona Certosa);
sabato 22 ottobre (ora da definire) all’Hula-Hoop Club, via De Magistris a Roma (zona Pigneto);
domenica 27 novembre (ora da definire) da Kur a Chia (VT).

 

 

La liberazione della donna, pilastro del confederalismo democratico

Intervista all’attivista e ricercatrice curda Dilar Dirik

di Patrizia Fiocchetti

«Sono cresciuta come tanti bambini curdi, sapendo che sulle montagne del Kurdistan turco c’erano donne combattenti. La mia coscienza si è plasmata in questa consapevolezza che mi ha dato una prospettiva altra da cui osservare ai fatti della vita. Per questo ho deciso di dedicare il mio lavoro accademico a illustrare e comprendere la realtà delle donne combattenti, le loro ragioni e l’evoluzione della loro azione con il mutare del contesto storico-politico in Medio Oriente».

foto dilir

Dilar Dilik

Sono a colloquio con Dilar Dirik, una giovane – ha solo 24 anni – nonché acuta studiosa appartenente al movimento delle donne curde. Ci troviamo nella sede dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia (Uiki) vicino piazza Vittorio a Roma, tappa nel suo viaggio di ritorno dal Rojava in Gran Bretagna. Il 7 e 8 marzo ha tenuto, in occasione della giornata internazionale della donna alcune lezioni sulla democrazia diffusa presso le università Sapienza e Roma Tre.
«Mi considero una rifugiata da sempre. A soli tre anni di età con la mia famiglia sono fuggita da Antiaka la mia città natale nel Kurdistan turco a causa della dura repressione dell’esercito di Istanbul. Sono cresciuta in Germania, precisamente in una cittadina in provincia di Francoforte; mi sono laureata in Storia delle scienze politiche e ho un master in studi internazionali. Attualmente sto completando il mio dottorato di ricerca in Sociologia presso l’università di Cambridge. Ho sempre considerato il mio lavoro accademico imprescindibile dall’impegno politico: nel 2012 la mia tesi ha riguardato la storia del movimento delle donne nel Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) su cui non c’era nessun interesse se non strettamente legato al giudizio di terrorismo attribuito al partito che si opponeva in armi contro lo strategico alleato Nato, la Turchia appunto. Eppure la guerra contro il Daesh era già in corso, pur se ignorata a livello internazionale».
Sorride. «E pensare che proprio la notorietà internazionale di cui improvvisamente hanno goduto le combattenti di YpJ (Unità di protezione delle donne) in Rojava alla fine del 2014 mi ha costretto a cambiare le direttrici della mia ricerca che si è spostata sui movimenti delle donne resistenti in Iraq e in Siria, nel mettere a confronto i due differenti contesti in cui agiscono. Tutto il 2015 ho viaggiato nella zona. Ho fatto interviste e raccolto una documentazione fotografica». Continua a leggere

Tra Da Vinci e David Bowie: intervista a Lo Zoo di Berlino

Pag. 7 Zoo

a cura di Giusi Palomba

Lo Zoo di Berlino è un trio rock atipico: Mauro Mastracci alias Volpe (batteria), Andrea Pettinelli alias Shelving (hammond, piano rhodes e synth) e Diego Pettinelli alias Echo (basso), niente voce, niente chitarra, spesso accompagnati da arte visuale. Poco più che maggiorenni i fratelli Pettinelli fondano il Consorzio ZdB, uno studio di registrazione adibito subito a vero laboratorio creativo, dove passano con disinvoltura dal mixer agli strumenti musicali, dalla composizione alla produzione artistica, producendo lavori per Area, Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI, Marlene Kuntz), Nocenzi e Maltese del Banco. Anche se fanno una musica senza parole, li abbiamo conosciuti durante la Festa della Parola al csoa eXSnia. Li intervistiamo perché riconosciamo in loro percorsi, riferimenti e ispirazioni simili ai nostri, e un modo interessante per rappresentarli.

Perché Lo Zoo di Berlino?

Siamo un gruppo di persone molto affiatato, che sono cresciute insieme. Complice il fatto che due terzi del gruppo è composto da due fratelli e il terzo è un amico fraterno. Quindi abbiamo fatto letture comuni, visioni di film ed esperienze comuni (tipico delle band di giovanissimi sognatori).

Rimanemmo folgorati dalla visione del film Christiane F. e i ragazzi dello Zoo di Berlino. Anche se ormai datato come film, con una sceneggiatura per niente argomentata come nel libro, furono, per dei bimbi come noi, delle scene forti. Poi trovammo il libro e lì la storia ci fu molto più chiara. Eravamo più maturi. Scoprimmo cosa rappresentava Berlino, città cerniera, spartiacque tra due mondi, oriente e occidente. Venimmo a conoscenza del proliferare della scena musicale e artistica in genere, di cui era pervasa Berlino, tra squat e gallerie d’arte. Ci rendemmo conto inoltre che essere dei ragazzini negli anni ’90 nelle periferie della provincia romana non era poi tanto diverso da quello che raccontava Christiane, cioè la completa assenza di bellezza e tenerezza dentro una cornice di luci artificiali, asfalto, cemento armato, cantieri abbandonati, fogne a cielo aperto, strade dissestate, l’odore d’orina dappertutto, la diffusione industriale di droghe pesanti. Continua a leggere

[Laspro 33] Il doppio sparo dei Kina

Intervista a Gianpiero Capra e Stephania Giacobone, autori di Come macchine impazzite

di Luigi Lorusso

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Come macchine impazzite. Il doppio sparo dei Kina (Agenzia X edizioni 2014, 218 pagine, 15 euro) racconta una storia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, che si dipana tra le montagne valdostane e gli squat berlinesi, attraverso la musica, le parole e i chilometri macinati sul furgone blu dei Kina, gruppo punk-hardcore attivo tra il 1982 e il 1997 (con concerti occasionali proseguiti fino al 2012). A raccontarla è Gianpiero Capra, bassista e autore dei testi delle canzoni, insieme con il batterista Sergio Milani, che unisce la precisione nell’evoluzione cronologica della storia del gruppo con la passione che traspare dalle parole che descrivono cos’erano il punk, la musica, gli squat in Europa come prefigurazione di un modo di vivere. I Kina nascono sostanzialmente da due ragazzi cui la vita asfittica di Aosta andava stretta, fino a diventare the best italian punk from Aosta (definizione per i loro concerti in Germania), finché Gianpiero, Sergio e Alberto Ventrella (per un certo periodo Stefano Giaccone, anche nei Franti, Marco Brunet e altri) si rendono conto che “la scena” e il movimento non ci sono più, restavano la musica e gli amici, che forse le vite di chi con quella musica non ha mai guadagnato andavano in altre direzioni, e decisero quindi che la storia dei Kina finiva lì.
Ma qualcosa rimaneva anche dopo che i Kina smettevano di fare dischi: in quella stessa città, forse solo un paese un po’ più grande degli altri, Aosta, dove “non c’è scampo”, anni dopo un’adolescente cerca una musica e un movimento che parlino a lei e di lei. Continua a leggere