«I movimenti di lotta si raccontano in continuazione. Ma chi ne raccoglie la voce?»: intervista a Cristiano Armati

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano ArmatiChristian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Cristiano Armati (qui quella a Christian Raimo).

Cristiano Armati, scrittore e direttore editoriale di Red Star Press, è un militante dei movimenti romani per il diritto all’abitare. Non a caso, ci vediamo presso l’occupazione di via del Porto Fluviale, poco prima di un’assemblea cittadina delle occupazioni di case.

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Foto tratta da www.armati.info

Sei un militante politico e un lavoratore della cultura. Come vedi l’espressione di militanza culturale o di cultura militante?
«È difficile parlare di militanza culturale, o meglio fuorviante: io credo soltanto a un tipo di militanza, che mi piacerebbe poter definire politica, ma allo stato delle cose si può dire delle lotte sociali. Lo trovo fuorviante, perché è impensabile poter sviluppare progetti di indipendenza culturale al di fuori di una lotta. Quando parliamo di cultura è ipocrita rimuovere quello che è il vero convitato di pietra, cioè l’esclusione sociale, la subalternità economica. Quando parlo di cultura io dico sempre: “Che cosa ci faccio di un libro se non ho neppure una casa?”. Se anche il mio obiettivo fosse quello di vendere più libri, allora mi devo concentrare sul fatto che le persone abbiano la possibilità di essere pagate meglio, di avere una casa, e su quella base lì poi potersi concentrarsi sui libri, sulle tante belle cose che si possono fare nel settore culturale. Il mio modello è un medico canadese, Bethune, che quando gli chiedevano come si cura la tubercolosi rispondeva: “Con un impiego stabile e una casa decente”».
Come è vista all’interno dei movimenti di lotta per la casa l’esigenza di una narrazione delle lotte di più largo respiro della cronaca o della notizia sul giornale?
«Il problema della lotta del movimento per il diritto all’abitare è quello di avere immediatamente uno scontro diretto col potere centrale e quindi di essere perennemente sotto attacco. Questo tende a far passare in secondo piano problemi che sarebbero cruciali come quelli della comunicazione e della narrazione delle lotte. Sicuramente costruire delle narrazioni più efficaci sarebbe qualcosa da fare. È vero anche che quando parliamo di narrazioni, di libri, di internet, ma perfino di smartphone o di video, non ce ne rendiamo conto ma alludiamo a una composizione sociale. Chi lotta per la casa non sempre padroneggia strumenti che vengono dati per scontati. Il movimento di lotta per la casa si racconta in continuazione, ma non sempre gli strumenti ai quali affida tale racconto vengono utilizzati per formare delle narrazioni più ampie. Il movimento parla in piazza, parla con i cartelli, c’è uno striscione che noi molto spesso citiamo perché è rimasto mitico tra di noi, e diceva: “I diritti non vanno a moda”, esattamente così. Io ti potrei parlare per ore di quanto comunica quello striscione, che qualcuno potrebbe semplicemente bollare come sgrammaticato, sbagliato, perché quella lingua non si sa leggere, se si sapesse leggere non esisterebbe più il movimento perché tutti avrebbero una casa. Per cui certo, dovremmo comunicare meglio, di più. Ma mi chiedo, in tempi in cui è difficile dare un senso alla figura dell’intellettuale, perché gli intellettuali non sono nel movimento per il diritto all’abitare? Forse oggi, come succedeva anche in passato, l’interesse oggettivo è diverso e quindi i problemi che si mettono a fuoco sono differenti rispetto all’immediatezza di combattere per un pranzo e una cena da mettere a tavola tutti i giorni».armati2
Secondo te esiste, in Italia o altrove, una narrativa delle lotte sociali?
«Io sinceramente non la conosco. Mi è capitato di imbattermi in tanti libri che reputo fondamentali per capire il problema del conflitto sociale. Sono libri che non so quanto stiano in un canone, parto da Verga, che cito sempre, arrivo a Bukowski, che viene addirittura descritto come un autore reazionario, c’è stata la stagione del neorealismo, non possiamo non citare Pasolini, Vittorini, Zavattini. Da allora i temi del realismo sociale non sono stati all’ordine del giorno in Italia. I narratori oggi di fatto non scrivono romanzi, ma saggi mascherati. Prendono grandi temi della storia italiana e li raccontano in forma romanzata, cosa che a me non piace, lo reputo una scorciatoia che secondo me scontenta il lettore che ha bisogno di qualcuno che prenda la parola in maniera non ambigua sui grandi fatti della storia italiana e priva lo scrittore della sfida che c’è nel fare un romanzo, inventare un mondo. Non c’è oggi una tradizione di narrativa delle lotte, anche se ci sono delle cose che meriterebbero di essere segnalate, ad esempio diverse persone che recuperano la memoria dei partigiani e la riattualizzano. Poi ci sono tante opere spurie, anche all’interno delle occupazioni non sono mancati gli occupanti che hanno fatto le loro autoproduzioni, proprio qui a Porto Fluviale anni fa un occupante, Abdul, ha scritto il suo libro intitolato Mi piace questo posto, in cui parlava sia della sua esperienza di migrante che della sua esperienza di lotta. Una narrativa delle lotte può nascere nel momento in cui tante persone pensano di aver vissuto attraverso la lotta un momento eccezionale, di rottura, in grado di far scattare la necessità di scrivere. È qualcosa ancora in divenire».
Tra i tuoi libri ce ne sono alcuni che si pongono più sul versante della memoria la-scintilla-armatistorica, come Cuori rossi, altri più portati all’attualità delle lotte, come La scintilla. Quali ritieni più “necessari” dal punto di vista della lotta?
«Quando scrivo saggistica mi pongo sempre una necessità banale, quella di essere capito. Ho la sensazione che sia molto difficile, perché i riferimenti comuni sono sempre di meno. Quando si apre un libro bisogna trovare risposte anche alle domande ovvie: il rapimento Moro, e chi era Moro? Nei libri cerco di fare questo, non vedo una discontinuità tra attualità e storia, anche nel quotidiano, c’è l’urgenza e la necessità di spiegare. Se parliamo di lotta per la casa, ho la sensazione che nessuno sappia cosa sia l’articolo 5 del piano casa di Renzi e Lupi, ho il terrore di sapere che quella legge, che vieta la residenza nelle case occupate, è identica alla legge contro l’urbanizzazione fatta da Mussolini durante il ventennio e rimasta in vigore fino agli anni ’60. Questo mi stimola e mi spaventa: mi stimola l’idea di ritrovare dei punti che ci interessano, all’interno della classe subalterna. Mi terrorizza vedere che questi punti in comune spesso non ci sono».

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