di Enrico Astolfi (prima parte)
Piazza Nuccitelli Persiani. Zona Pigneto. Roma Est.
Cassonetti di spazzatura colmi di sacchi di plastica dei più svariati colori, vicino un paio di assi da stiro malmesse, alcuni materassi maculati e un frigo arrugginito. Un gatto che giochicchia pigro con i resti di una bambola.
Nella piccola area sgambamento cani, un vecchietto che indossa una coppola rossa e una felpa a scacchi osserva il suo bastardino nero muoversi lentamente. Il sole sbuca dietro ad alcuni palazzoni e li illumina. Il vecchietto alza la testa e sorride accogliendo la luce come se fosse un regalo divino. E forse, per lui, lo è. Chissà.
Sono le sette del mattino e a Mamadou piace, con la sua tazzona di caffellatte in mano, affacciarsi alla finestra e guardare cosa succede. Niente di maniacale, di perverso, solo la rassicurante abitudine a ripercorrere ogni giorno scenari conosciuti, panorami familiari. La ripetitività delle azioni ad alcuni risulta noiosa, ad altri poco stimolante, per Mamadou è come un abbraccio materno: la testolina conficcata fra le enormi tette della madre e quel calore in petto che lo faceva sentire al sicuro, al riparo, vivo.
Illustrazione di Layla Di Felice
Così sospeso tra il presente e i colori dei ricordi si gode ogni sorso di bevanda fumante con aria di vittoria.
Il vecchietto si china faticosamente sul suo amico peloso e lo accarezza con affetto, arriva una squadra di netturbini per ridare dignità a quell’angolo di discarica periferica. Il gatto invece di darsela a gambe e abbandonare il suo gioco, lo azzanna caparbio. A ognuno il suo, voi fate il vostro lavoro, ma lasciatemi divertire.
Gli operatori ecologici discutono ad alta voce, Mamadou scuote la testa, non capisce come, ogni santissima mattina, possano metterci tanta verve: tra un colpo di scopa e l’altro, c’è sempre qualcosa che li turba, che li agita.
Deve essere difficile vivere così, sempre in preda a convulsioni rabbiose, ostaggi di un gesticolare compulsivo e, a volte, rischioso considerato che maneggiano strumenti da lavoro di metallo. Niente di strano, Roma sa essere anche così, un formicaio di lamentele, insulti, promesse di morte. Un covo di rancorosi lamentosi che si minacciano e si lasciano sull’asfalto per un parcheggio.
«Ma sti cazzi» borbotta Mamadou che della romanità ha preso le espressioni più sottili.
Terminato il caffellatte, torna in casa, si mette la divisa del corriere SDA, dà una veloce lavata alla tazza ed esce.
Imbocca le scale e scende di gran carriera.
Mamadou in Guinea Conakry, prima di scappare, giocava nelle giovanili dell’Haifa Football Club, storica e gloriosa squadra della capitale. Arrivato in Italia dopo un viaggio estenuante non ha provato, come molti suoi coetanei e conterranei, la via del calcio professionistico, s’è messo sui libri, ha imparato l’italiano, ha frequentato un paio di corsi professionali, ha preso la patente e con l’aiuto di un amico romano ha trovato lavoro. Così mentre i suoi paesani sognavano volate palla al piede, dribbling secchi e goal sotto la curva, lui è stato l’unico a firmare un contratto e indossare una divisa: bianco blu a strisce larghe. La maglia per la sua partita più importante.
Mamadou esce a testa bassa dal palazzo, senza guardare davanti prepara la chiave del lucchetto che chiude l’amata bicicletta al palo della luce. Fa un paio di passi, alza gli occhi.
Un sussulto.
Sgrana gli occhi come se fosse davanti a una visione.
Non c’è. Scomparsa. Dissolta. Il vuoto.
Mamadou si mette le mani davanti al volto, trema. Un freddo improvviso che gli congela le budella. «Aho ma che hai?» Alle sue spalle sbuca una signora che abita nel suo palazzo, una di quelle donne di borgata che quando ti prendono a cuore ti trattano come un figlio, ti cucinano l’amatriciana e mentre mangi ti illustrano i dettagli delle loro patologie con puntiglio.
«M’hanno rubato la bici».
«E che la lasci fuori?»
«Non son riuscito a portarla a casa. Le scale sono strette».
«Ma il lucchetto era bello grosso?»
«E sì, c’ho speso trenta euro» Mamadou gesticola agitato.
«E mò?»
«Problema. Devo andare al lavoro».
«Prendi i mezzi».
L’africano la guarda perplesso.
«’Mbe che ho detto de strano?»
«Se prendo i mezzi ce metto du ore. Conakry è collegata meglio».
«Co… chi?» domanda lei davanti all’ignoto.
«La capitale del mio paese».
«Ahahah» la signora sembra divertita.
«Grande problema, non ce sta niente da ride» ribadisce Mamadou.
«Teso’ prova a andare al bar, magari sanno qualcosa, hanno visto, che ne so».
L’africano s’acciglia, dà due bacetti alla signora e si allontana di gran carriera.
Potrebbe avere ragione, è sempre pieno di gente che non ha niente da fare, magari qualcuno ha notato movimenti strani, pensa Mamadou mentre si avvicina all’esercizio.
Entra. Espressione cupa, il cuore che pulsa. L’ansia del primo ritardo e la rabbia per il furto.
C’è un tipo, un cinese, sulla cinquantina, capelli a caschetto, completo blu impeccabile, scarpe nere lucide. Fin qui nulla di anomalo solo che il signore non si adopera dietro alla slot machine, non fuma senza ritegno buttando la cenere per terra e sbottando frasi interminabili, come fanno tutti i suoi compaesani, no lui legge, composto, la Gazzetta dello sport. Davanti a lui, cornetto e cappuccino. Non lo conosce, ma l’ha già visto e non gli è piaciuto sin da subito: i cinesi che non si comportano da cinesi, rappresentano una minaccia, nascondono qualcosa, sicuro.
Mamadou ne è certo.
Inoltre, proprio ieri, che casualità, aveva una consegna nei pressi di Sartori, la più antica gelateria di Roma. Come sempre decine di suv si accalcavano sulla strada nell’eroico quanto vano tentativo di avvicinarsi il più possibile alla porta d’ingresso, enormi macchine parcheggiate in seconda, terza fila. Piccoli asiatici che uscivano dalle vetture, si riversavano all’interno dell’esercizio e uscivano brandendo variopinti gelati. Nell’abitacolo famiglie festanti che attendevano quella visione tra clacson impazziti e quattro frecce che sfavillano. In quel marasma l’ ha visto a bordo di una Fiat Panda blu, vecchio modello, intento a combattere con una piadina che colava mozzarella ovunque.
Allora, quando si gira in furgone e si vive per strada di cose strane se ne vedono, ma quell’immagine gli era rimasta impressa.
La piadina e la Cina, un accostamento insolito.
Dubbi.
E ora l’uomo si trova davanti a lui. Forse l’unica possibilità di ritrovare la bicicletta.
Mamadou si avvicina con aria sconfitta, sa già che non ne caverà un ragno dal buco. Non riesce a comprendere in maniera analitica perché abbia questa sorta di avversione nei suoi confronti, condividere usi e costumi di altri paesi dovrebbe essere un valore aggiunto, qualcosa di positivo. Del resto lui ha imparato a fare un paio di piatti italiani e qualche canzone di Vasco Rossi e con così poco s’è aperto strade inimmaginabili. Perché dovrebbe essere diverso per quel minuto asiatico? Forse anche il cinese per farsi qualche amico s’è dedicato alla piadina e alla Gazzetta, dimenticandosi dei ravioli alla carne e del Thai chi. Che male c’è?
Ci riflette, ma nulla da fare, le perplessità rimangono.
I cinesi che non si comportano da cinesi non mi convincono, pensa ancora una volta.
Comunque, deve provarci: «Scusi?».
L’asiatico continua a leggere.
«Scusi?» Mamadou insiste.
Continua…