di Patrizia Fiocchetti
Un romanzo fin dalle prime battute può colpire come un pugno allo stomaco, oppure con studiata lentezza pagina dopo pagina farti trovare immerso nell’inquietudine. Fango – Distopia in pochi atti il nuovo libro di Luca Palumbo (Lorusso Editore, 370 pagine, 14 euro), risponde decisamente alla seconda categoria dove il fango, appunto, è reale e palpabile ma anche metaforico dell’impoverimento morale e concreto degli uomini.
Roma è la protagonista. Precisamente Roma est e ancora più precisamente Torpignattara che funge anche da palcoscenico, sulle cui strade coperte di fango, appunto, agiscono i personaggi mai del tutto buoni o cattivi, persi in loro stessi, immersi in una precarietà senza via di scampo e in un tempo storico e fisiologico sospeso che per l’autore sembra non avere alcuna importanza.
L’Italia non esiste né come stato di diritto, né come riferimento istituzionale. Roma si è staccata da tutto, è nelle mani di un sindaco fantasma che esercita un potere violento e definitivo, direi osceno per quanto crudo e il cui fine ultimo mira all’annullamento di tutte le forme di dissenso, confronto e contrasto a un progetto più ampio. E Roma est diventa il ghetto ove racchiudere gli sconfitti, sempre più numerosi, i diseredati, i paria di questa nuova società oligarchica, per poi annientarli.
«Ho immaginato una Roma bagnata da una pioggia incessante con il fango che inizia a coprire e poi imbrattarne le strade, i quartieri mano a mano che la macchina violenta del potere che la governa si fa più brutale». Con Luca Palumbo siamo seduti su una panchina del parco che circonda il lago Viscosa vicino l’ex Snia. «Il fango è per me simbolico della decadenza di questa città. Nella mia idea di romanzo distopico, l’atmosfera apocalittica ha nell’elemento naturale e climatico una valenza immediata, quasi figurativa».
E perché Roma Est?
«Be’, sono napoletano e cresciuto in Molise. A Roma est ho vissuto fin dal mio arrivo nella capitale». Ride. «E ci vivo tuttora. È la zona di Roma che conosco meglio, dove mi sono interessato a battaglie popolari come quella che ha portato a salvare il lago Viscosa, appunto. Nel romanzo, invece, immagino che quest’area venga strappata con la forza ai movimenti di quartiere e si arrivi alla realizzazione di quel progetto di speculazione edilizia ideato nei primi anni ‘90: la costruzione di una città-gioiello, accessibile solo ai ricchi e ai nuovi padroni di Roma. Inoltre, per me questa città è anche simbolo di una crisi generale, sociale ed economica, non solo a livello nazionale ma anche europeo: qui si sono consumati conflitti sociali estremi però sconfitti. Questa Roma distopica è una zattera di pietra (titolo di un capitolo, omaggio all’omonimo libro di José Saramago, nda), che vaga in un mare sconosciuto, trasformata in una Città Stato».
Nel libro parli di un progetto perseguito da questo sindaco che non ha né un nome né un volto, che si muove su linee marcatamente razziste e xenofobe. Eppure, leggendolo, non ho avvertito dietro tutto questo una, passamela, ideologia o condotta politica quanto piuttosto un mero esercizio che risponde alle logiche di mercato.
«È vero, ho rappresentato una Roma dove il senso politico dell’atto istituzionale è azzerato sfociando in un confronto sempre più aspro e primitivo, verso l’annullamento dei deboli e delle loro rivendicazioni. Il potere nel libro agisce per annientare, non più per sottomettere, cancellare tutte le realtà e gli individui che si oppongono alla sua intenzione di speculazione edilizia e territoriale». Fa una pausa. «Ho messo su carta le mie paure di fronte alla realtà di un sempre crescente numero di persone che perdono la casa e si trovano ad affrontare una realtà alloggiativa drammatica di cui, però, l’altra faccia della medaglia mostra un sistema di potere economico forte nelle mani della cosiddetta imprenditoria sociale che specula attraverso la rete dei residence di emergenza abitativa sulla disgrazia di chi viene sfrattato».
Nel libro parli molto dei movimenti di lotta sociali e per la casa, appunto, ma le tue parole per quanto non aspre, sottendono una chiara critica che rendi attraverso i dialoghi dei protagonisti. Vorrei citare una frase, a pagina 37: “Ognuno di noi è rimasto isolato” quasi a sancire una sorta di fallimento nell’esperienza aggregativa dei movimenti.
«Obiettivo del libro è sempre stato mettere in risalto le contraddizioni che ho visto, e vissuto, all’interno dei movimenti di lotta in generale, con attenzione particolare ai centri sociali. Un fallimento? Forse, sicuramente la mia delusione di fronte a quella volontà di isolamento che li ha resi una sorta di circolo esclusivo, settario, privo di apertura mentale al confronto con realtà alternative. Dinamiche che mi lasciano perplesso e mi hanno allontanato poiché ho assistito alla trasformazione dei movimenti in una sorta di gruppi che agiscono per il mantenimento di una sorta di fittizia supremazia. Pertanto frammentazione e confusione ne sono i prodotti sul piano dell’azione sociale. Questa condizione nel libro l’ho portata alla sua conseguenza estrema: gli individui di fronte alla propria coscienza decidono di battersi fino alla fine. Ma sono consapevoli della doppia sconfitta che stanno subendo».
Quindi la resistenza al potere diviene in Fango moto e azione individuale?
«È esatto dire che, pur parlando in diverse parti del libro di resistenza al potere oscuro e indefinito, questa non esiste, è solo accennata. Una resistenza non organizzata, confusa, conseguenza del fallimento della lotta dei movimenti. Vuole essere un messaggio provocatorio, perché lo spiraglio che lascio aperto, il mio desiderio vero, è che le singole scelte di opposizione confluiscano in una azione corale e condivisa».
Vorrei ritornare al tema a mio avviso centrale del libro: il potere, o meglio un certo tipo di agire del potere. Un’altra frase che mi ha colpito è: “L’ideale collettivo contemporaneo è il potere”. Il potere che rappresenti vive di vita propria e non sembra importante chi lo incarna.
«È senza volto perché in realtà dietro ha sempre le stesse facce. È un potere che si autoalimenta ma con quella frase è come se proponesse di appropriarsi dei valori della parte che sta combattendo per poterla annientare in maniera più rapida ed efficace. L’esercizio del potere nel corso del libro va crescendo e si esprime con modalità sempre più barbare e feroci: deve stringere i tempi della pulizia sociale».
I personaggi maschili sono interessanti e quelli cattivi tratteggiati con dei chiaroscuri che li rendono estremamente umani per quanto alla fine tutti perdenti. Spiccano le donne, tre, così nettamente differenti tra loro. Qual è quello in cui ti riconosci e quello a cui affidi le tue speranze?
«Decisamente Matteo Furst è il carattere che mi rappresenta. Protagonista del mio primo romanzo Un maledetto freddo cane, in Fango è una figura di secondo piano ma è maturato e pur sempre visionario e pessimista, nel corso della storia acquista consapevolezza di quanto gli accade intorno e prende posizione. Quello, invece, a cui affido la mia speranza è Dago (omaggio a John Fante e al suo romanzo Dago Red, nda), il ragazzo che subisce il tradimento di chi credeva un amico, e le percosse, ma che fa suo un determinato spirito di riscatto. Per quanto riguarda i personaggi negativi, Molise il traditore-infiltrato e Castracane l’ex poliziotto mi sono ispirato al lavoro di Valerio Evangelisti, che proprio nella creazione dei ‘cattivi’ è un maestro. Li rende talmente umani da spiazzare il lettore».
E le donne?
«Nanà è una solitaria, con un carattere lineare e un passato che ritornerà a incrociare la sua strada. Ha fatto parte di un gruppo anarchico insieme al suo amico Gino Pilàr, e ha condotto operazioni di sabotaggio. Poi c’è Sakine, una rifugiata politica curda che fugge dal centro d’accoglienza in cui è ospite prima che venga trasformato in una prigione. Per lei mi sono ispirato a una profuga conosciuta nel centro in cui ho lavorato e di cui non conosco la storia. Sakine è forte, reduce da tante battaglie, e un sostegno per i personaggi con cui si trova a scappare per le strade di Roma est. Intorno a lei si realizza l’unico momento collettivo del libro. E infine la centaura dal mantello nero, androgina e spietata, l’unica che non ha sfaccettature caratteriali e priva di alcun messaggio. È l’incarnazione del nichilismo puro».
In conclusione, Roma Città Stato dove, dici, non dovranno più esistere scontri o contrasti sociali. Pertanto repressione, uccisioni e arresti di massa, e quindi la ghettizzazione. Questo il ruolo di chi per conto del potere ne gestisce la macchina di violenza. Si cancella l’idea o anche la sola intenzione di confronto perché non ci può essere nulla di alternativo a quello che è il desiderata del potere. Tutto ciò avviene a Roma est, invasa dal fango che nasconde molte altre nefandezze. Nessuna speranza, quindi?
«È un romanzo distopico, ma ho scelto un finale che lascia aperto uno spiraglio di speranza e non si concluda con l’immagine della vittoria del potere nella beffarda manifestazione della propria crudeltà proprio qui, davanti al lago Viscosa dove tanto tempo prima la gente aveva vinto. Fango è il primo romanzo di una trilogia. E non so ancora se il clima nella Roma Città Stato migliorerà».
Le prossime presentazioni di Fango saranno:
venerdì 16 settembre ore 19.30 a Farfa (RI) nel corso di Liberi sulla Carta – Fiera dell’editoria indipendente;
venerdì 23 settembre ore 19.30 da Chourmo in via Galeazzo Alessi 122 a Roma (zona Certosa);
sabato 22 ottobre (ora da definire) all’Hula-Hoop Club, via De Magistris a Roma (zona Pigneto);
domenica 27 novembre (ora da definire) da Kur a Chia (VT).