[Pop-Corner] Natsuo Kirino: una lettura di genere del lato oscuro del Sol Levante

di Duka (da Laspro 38, gennaio/febbraio 2017)

kirino_natsuoNatsuo Kirino, nome d’arte di Mariko Hashioka, nata a Kanazawa nel 1951, è una delle più importanti scrittrici giapponesi nota soprattutto per i suoi romanzi gialli e hard boiled. Autrice famosissima nel suo paese. Non amata in patria dalla critica letteraria – che vede le donne adatte a scrivere solo storie d’amore – per le trame anticonvenzionali. Durante una trasmissione, un conduttore radiofonico si rifiutò di interloquire con lei poiché in uno dei suoi libri narrava la vicenda di una moglie assassina del proprio marito.
Contestatrice formidabile delle istituzioni sacre, la sua voce dà un nuovo respiro alla letteratura nipponica.
Figlia di un architetto e laureata in legge, prima di diventare scrittrice di professione ha lavorato come editor e articolista.
Dopo gli esordi negli anni ’80 come autrice di romanzi rosa – genere letterario poco in voga in Giappone – sposta la sua attenzione verso gli aspetti psicologici del crime.
Le sue storie, come nel caso di Le Quattro Casalinghe di Tokyo, trovano spesso riscontro nella realtà del suo paese: nel 2007 una donna uccide il marito, ne smembra il corpo e si sbarazza dei resti seminandoli per tutta Tokio.
Natsuo ci regala immagini poco idilliache del Sol Levante. Lontane dallo stereotipo fatto di sgargianti carpe koi, Hello Kitty e fiori di ciliegio.
Gli scenari macabri dei suoi romanzi richiamano lo splatter; accostandosi, per stile, anche al hard boiled americano, da cui tuttavia si differenzia per per la scelta – spesso – di protagoniste femminili.
Donne e crimine sono il fulcro del suo lavoro. Istantanee cupe di esistenze e solitudini.
Umanità “altra” che spesso – ma non solo e non in modo discriminante – appartiene alle classi inferiori della società giapponese. Vittime di ingiustizie sociali e ricatti economici, ma consapevoli del quotidiano da cui non si sottraggono e che, anzi, affrontano. Continua a leggere

[Pop-Corner]Il Duka e le serie tv: Black Sails

di Duka (da Laspro 37, ottobre 2016)

Le rotte atlantiche della guerra di classe

blacksails-sinfulcelluloid-skullsEra dai tempi di The Wire e Breaking Bad che non finivo magnato dalla rota per una serie tv. Causa della mia ennesima scimmia è Black Sails – la prima che mi sono sparato in streaming senza aspettare l’appuntamento settimanale su Rai 4. La fissa per la fiction – che si candida a prequel de L’isola del tesoro di Stevenson – mi è partita, sia per l’ammirazione che avevo da bambino per i pirati dei Caraibi, ma soprattutto per l’apertura – episodio 0.1 – del Capitano Flint: «Quando dico che sta arrivando una guerra… non intendo dire con la Scarborough, non intendo con re Giorgio né con l’Inghilterra. Sta arrivando la civiltà e ha intenzione di sterminarci». Per la prima volta una serie televisiva, prodotta da eredi dei proto-liberisti (Platinum Dunes, Quaker Moving Pictures) che sconfissero i pirati d’oltreoceano, non mette al centro della narrazione le avventure guascone, da cappa e spada, della pirateria, ma il suo ruolo di proletariato atlantico, significativo nella lotta contro il monopolio spagnolo del commercio e gli Stati-nazione agli albori di colonialismo e capitalismo. Secondo me gli ideatori della serie – due onesti marchettari come Jonathan E. Steinberg e Robert Levine – centrano per una botta di culo le origini del conflitto per il controllo delle rotte marittime – premessa alla guerra di classe nel Nuovo Mondo. A chi non dovesse accontentarsi di arrembaggi, battaglie navali, bordelli, rhum e intrighi vari e vuole una lettura radicale dei fatti, consiglio gli studi di Peter Linebaugh e Marcus Rediker, autori di I ribelli dell’Atlantico (Feltrinelli 2004). Un saggio straordinario da leggere assolutamente!!! Per chi, invece, ai pipponi preferisse la narrativa, suggerisco il capolavoro di Valerio Evangelisti – trilogia della Filibusta – Tortuga, Veracruz, Cartagena (Mondadori).

[Pop-Corner] Il Duka e le serie tv: The Get Down

di Duka (da Laspro 37, ottobre 2016)

Dal ghetto alla conquista del mondo

the-get-downThe Get Down è una serie tv, uscita per Netflix nel 2016, ideata da Baz Luhrmann – regista cinematografico dei musical postmoderni Romeo + Juliet e Moulin Rouge! – ambientata a New York. Per la precisione nel South Bronx. Siamo nell’anno 1977, anno che i newyorkesi non scorderanno per i saccheggi avvenuti durante il famoso blackout. La musica sta cambiando. Nuovi generi musicali, il punk e la disco music, sono stati partoriti – dal seme fuoriuscito da soggetti marginali – dal ventre immondo della Grande Mela. Da lì a poco questi rumori soppianteranno i vecchi suoni e come un virus si diffonderanno in tutto il pianeta. In quei giorni, dentro la centrifuga generata da questo caos creativo, nel South Bronx – grazie anche alla tregua che pone fine alla guerra di strada tra le gang – inizia a prendere forma un nuovo stile. La cultura hip hop. Grazie a pionieri come – l’immigrato giamaicano – Dj Kool Herc, Grandmaster Flash e – l’ex capo guerra dei Black Spades – Afrika Bambaataa. Dal punto di vista musicale questo genere a cui piace collocarsi in opposizione alla disco ha subito da parte di quest’ultima una forte influenza. E condivide con il punk l’attitudine “fai da te”. La storia narra le vicissitudini di un gruppo di pischelli che ammazzano il tempo, uccidono la noia, tra rap, passi di danza e graffiti. Spraytando muri e vagoni della metro che fanno viaggiare i loro tag lungo le arterie della metropoli. Come set le macerie di edifici incendiati e poi demoliti dai palazzinari. Distruggere il Bronx per poi speculare con la ricostruzione. La serie è un kolossal: 120 milioni di dollari per rendere ogni dettaglio perfetto. Maniacale! Tutto deve essere come allora. Abbigliamento – scarpe scamosciate Puma, giubbetti Adidas, le divise con i colori delle gang – taglio di capelli, arredamento delle discoteche, macchine e vagoni tutti graffitati. Questa è la sua forza. Merito della costumista Catherine Martin che ha già lavorato – vincendo quattro premi Oscar – nei film di Luhrmann. Per saperne di più sulle origini dell’hip hop nel Bronx leggete il saggio R­­enegades of Funk di U. Net (Agenzia X).

[Pop-Corner] Il Duka e le serie tv: Vinyl

di Duka (da Laspro 37, ottobre 2016)

L’ascesa del punk, nella New York dei ’70, narrata da Martin Scorsese e Terence Winter

vinyl905-675x905Vinyl è una serie televisiva creata da Martin Scorsese, Mick Jagger, Rich Cohen e Terence Winter (la penna de I Soprano e The Wolf of Wall Street) per HBO (The Wire, Boardwalk Empire, Entourage, Il Trono di Spade). Racconta la crisi dell’industria discografica, ormai ridotta a un cimitero per elefanti, all’inizio degli anni ’70, dopo la seconda “invasione britannica” (Led Zeppelin, Cream, Jeff Beck Group) del mercato americano e la ricerca disperata delle major – attraverso le sue poche intelligenze – del nuovo evento. L’episodio pilota, un film della durata di quasi due ore, è scritto da Winter – uno dei migliori sceneggiatori oggi in circolazione – e girato magistralmente dal regista di Taxi Driver. La puntata si apre e si chiude con Richie Finestra, il visionario discografico italoamericano protagonista della serie, che imbocca – con il naso sgommato di bianco dalla cocaina – per sbaglio in un locale mentre suonano i New York Dolls, band che Finestra non conosce. Sulle note di Personality Crisis, l’architettura del mondo crolla davanti alle sue pupille dilatate. Richie è di nuovo estasiato come quando da giovane – tempi in cui lavorava come cameriere nei locali notturni – sentì la semplicità di due accordi e la potenza dei riff – altro che le seghe sparate a vuoto dalla chitarra di Jimmy Page – che scaturivano dalla Twang Machine di Bo Diddley. Finalmente il rock and roll ritornava alle origini. La mattina dopo, in ufficio, Finestra non firma il contratto per i diritti dei Led Zeppelin e invita, a ritmo di insulti, soci e dipendenti – pena il licenziamento – a scovare giovani band nelle strade e nei club malfamati del Lower East Side dove, in mezzo a drag queen, speed freak, prostitute e eroinomani sta per sbocciare il tulipano nero del punk. Per chi, dopo la visione di Vinyl, vuole approfondire l’argomento consiglio la lettura del libro – considerato la bibbia del punk – Please Kill Me di Legs McNeil e Gillian McCain (Baldini & Castoldi).

[Pop-Corner] Dal muretto al centro sociale

La genesi degli spazi occupati a Roma

di Duka (da Laspro 35 marzo/aprile 2016)

Immaginate una città dove non esistevano pub, dove le birrerie si contavano su un palmo di mano, senza locali e centri sociali per ascoltare e suonare la propria musica. Una città noiosa. Un dormitorio, come si diceva allora. Ebbene questa era la Roma dei primi anni ’80, un posto buono per farsi le pere, scenario – di grande bellezza – vuoto di sfondo alla dipendenza di una generazione. Il decennio avanza tra repressione poliziesca ed eroina, un periodo sintetizzabile nell’immagine di un gesto che scandiva il rituale di quei giorni eternamente uguali: il risciacquo.
Un atto che si materializzava a buco appena fatto: per non buttare niente della dose si aspirava con una siringa il sangue, in modo da ripulire la spada dagli scarti della sostanza rimasta attaccata alle pareti, poi si ristantuffava l’ultima miscela di nuovo dentro le vene.
Rito sacrificale consumato sull’altare di una mutazione antropologica appena iniziata che accompagnerà una intera generazione lungo il decennio del disincanto.
Se abbandoniamo queste suggestive venature tardoromantiche, il file dei ricordi e della riflessione apre una finestra sui giorni lenti e noiosi, trascorsi seduti su un muretto, tra una canna e un’altra canna ancora. Eravamo comitive formate perlopiù da soli maschi, pronti a gettarsi in massa – ogniqualvolta si presentava la rara occasione – sulla malcapitata amica di turno. All’inizio ci parlavamo addosso del tempo che fu, quello dei movimenti.
Di lì a breve, l’argomento si sarebbe ristretto ai movimenti di droga.
Tra il 1979 e il 1982, la stragrande maggioranza dei miei conoscenti, amici e amiche erano diventati tossicodipendenti di eroina. Chi ne era rimasto fuori poteva considerarsi un sopravvissuto, ma trovammo ugualmente in altre dipendenze, non meno infami, la nostra via di fuga. All’epoca tutti scopavamo con tutti fino a che fummo puniti dalla santa inquisizione che abbatté contro di noi il flagello divino dell’Aids, così fummo costretti ancora una volta a imparare a convivere con la morte.
propaganda (2)Storie di tanti anni fa, da ascoltare con in sottofondo Closer dei Joy Division, sonorità che segnarono a pieno il passaggio agli anni ’80. L’apertura di alcune discoteche dove poter ballare punk e new wave fu di fondamentale importanza per le nostre vite e per la nostra formazione. A Roma la più frequentata era il Uonna Club su via Cassia, dove metteva i dischi Prince Faster, allora il dj di Radio Proletaria. Finalmente potevamo ballare quello che ci piaceva e pareva, senza “komunisti” tra i piedi che in precedenza avevano vietato la disco music imponendoci l’ascolto religioso di De Gregori e Pietrangeli. Grazie all’apertura di questi locali, le band cittadine ebbero la possibilità di esibirsi, cosa impensabile prima dell’avvento del punk. Continua a leggere

[Pop Corner] “Ai nostri amici”: un libro all’inseguimento dell’insurrezione continua

Fare inchiesta abitando le strade dove l’epoca si incendia

di Duka (da Laspro 34, novembre/dicembre 2015)

Per un borgataro come il sottoscritto, che consuma letteratura di genere e film western girati in estremo oriente (non c’entra un cazzo!, consiglio: Il Buono Il Matto Il Cattivo di Kim See Woon e Sukiyaki Western Django di Takashi Miike), un saggio politico che si apre con una citazione del bandito Jacques Mesrine – il public enemy number one – spacca!!!
Bastano queste due righe: «Non esiste un altro mondo. Esiste semplicemente un’altra maniera di vivere» per capire che Ai nostri amici, opera collettiva del Comitato Invisibile, è un libro scritto dove le strade si incendiano. Un volume che non emana odore stantio, come quelli seppelliti negli scaffali impolverati delle biblioteche, ma carta che sprigiona – pagina dopo pagina – il sapore della benzina e la puzza dei copertoni bruciati.
Pag. 2 DukaUna di quelle rare occasioni dove leggi un pippone con lo stesso piacere con cui ti spari un romanzo di Edward Bunker. Un testo che bandisce la noia e invita ad abitare l’infanzia. Capisci subito che gli autori sono compagni di gioco, stanno schierati dalla tua parte del campo. Quella degli oppressi del pianeta. Insorti – in questi anni di crisi – dentro la catastrofe. Una lettura che – all’interno della confusione regnante nelle aree antagoniste – ci voleva. Un saggio scritto con la consapevolezza che le insurrezioni per scoppiare non hanno bisogno di nessuno che le predica e le teorizzi. Continua a leggere

[Pop Corner] Lo humour nero di Victor Gischler

La new wave del noir americano

di Duka (da Laspro 32 aprile/maggio 2015)

Victor Gischler, scrittore di romanzi hard-boiled, sceneggiatore di fumetti per la Marvel (The Punisher, Wolverine, X-Men, Deadpool) e docente di scrittura creativa alla Rogers State University in Oklahoma, è una delle figure più interessanti della nouvelle vague del crime statunitense. La sua prima opera Gun Monkeys (La gabbia delle scimmie nell’edizione italiana per Meridiano Zero) nominato all’Edgar Award miglior romanzo d’esordio del 2001 va diretto e veloce come un pezzo punk della Bowery e trascina fino all’ultima battuta. Secondo Joe R. Lansdale Gischler «prende a calci in culo il concetto di andare al massimo e lo mette a danzare sull’orlo dell’abisso».
La gabbia delle scimmieE l’incipit di La gabbia delle scimmie scalcia con una zampata di mulo il lettore schiantandolo sull’ultima pagina: «Imboccai la Florida Turnpike con il cadavere decapitato di Rollo Kramer nel bagagliaio della Chrysler, continuando a ripetermi mentalmente che avrei dovuto stenderci sotto un telo di plastica».
Ma per un borgataro come chi scrive, che sbaglia le doppie, questo attacco spacca, oltre che per la scrittura, perché ci catapulta da subito nella condizione da sfigato di chi, per restare sul mercato, deve accettare ogni lavoro, come il protagonista. Riuscirà Charlie Swift a farsi pagare un lavoro che pareva regalato se, per la cazzata di un collega, il committente non può – non ha più la testa – identificare il cadavere? Questa è la prima domanda, metafora della odierna condizione di vita, che l’autore ci pone. La storia, e l’esistenza coatta di Charlie, va subito in merda.
Beggar Johnson, potente boss di Miami, che controlla la criminalità di quasi tutta la Florida, vuole impossessarsi di Orlando, territorio gestito, con una visione degli affari da malavitoso anni ’50, dal vecchio Stan. La sua banda viene subito decimata. Swift, membro della gang di Orlando, si ritrova fra i pochi superstiti, ma con una borsa contenente i registri contabili dell’impero di Johnson, diventando così la preda di una caccia scatenata da Fbi e mala di Miami. Continua a leggere