a cura di Giusi Palomba
A un certo punto su Luci e ombre di Google parlavate della seduzione degli hacker. Dunque anche nel caso in cui ci si affidi a chi ha le competenze per rivelare le trappole del mondo digitale, c’è un rischio.
Sono cose molto umane in realtà. Un conto è avere una fiducia che sconfina nella fede negli strumenti, che è quello che succede sempre di più con gli strumenti digitali: chiedi a Google, chiedi a Wikipedia, diventano forme di affidamento fideistico. Un altro conto è la fiducia. La fiducia ha il grosso svantaggio che può essere tradita, mentre la fede si rinforza se viene attaccata (è la sindrome dei true believers). Questo non per ritornare a un umanesimo di cui nessuno di noi è nostalgico, anzi, ma per sostenere che se ci sono degli oggetti smart, significa non che le macchine siano diventate intelligenti, ma che chi le usa è diventato stupido, ovvero ha delegato a chi crea le macchine il compito di dirgli quello che gli serve per diventare sé stesso, e come fare. Delega di competenze e del proprio tempo vitale.
Risolvere questa cosa con una comunità più ristretta e di tecnici significa soprattutto fare un passo gli uni verso gli altri. Bisognerebbe lanciare la campagna “Adotta il tuo nerd”, perché forse siamo tutti un po’ disturbati: la ragione per cui sono facilmente seducibili è che non hanno una grande idea di come funziona il mondo. E hanno la tendenza a vederlo come un insieme di problemi che si possono risolvere con una tecnologia adeguata. Molti nerd credono che i problemi sociali, siano risolvibili con uno schema dati – richieste – soluzioni, e non che siano un insieme di processi, valori, etc. In questo caso i nerd cercano di darti lo strumento che funziona e lo strumento tende a autoverificarsi, è una profezia che si autoavvera, perché crea un mondo a sé stante con le sue regole che però influisce sul resto del mondo, lo modifica e ne viene modificato. Facebook funziona perfettamente, come Google, ma il punto non è che funzioni o meno, ma se ne hai bisogno, se ti sta trasformando in una persona migliore, oppure se ti sta trasformando in un terminale più o meno senziente di cose che vengono da altrove. Bisognerebbe imparare a fare le domande giuste ai nerd, andargli incontro perché sono intellettualmente molto dotati, socialmente meno. Se non vogliamo che queste persone siano sistematicamente recuperate da soggetti politici anarcocapitalisti, progetti politici di controllo, dobbiamo aprire un dialogo.
Preferisco scendere a patti, sbattermi e cercare di fare in modo che stiano dalla nostra parte, piuttosto che essere in balìa delle loro fantasie malate sul fatto, tipo che domani la democrazia la facciamo con un bottone. Forse nerd è la parola sbagliata, ma il concetto è che se a vent’anni, se sei un genio, è facile che i tuoi genitori, gli amici, non capiscano niente di quello che tu fai e invece a un certo momento, arriva qualcuno e dice “ah, figo, quello che fai, di cosa hai bisogno? lo fai per me?”. Io vorrei poter offrire a queste persone un’alternativa, tutta da costruire. È secondario che siano soldi, possono essere più facilmente relazioni, che sono difficili da gestire per queste persone.
Una delle derive del fare esperienza virtuale, piuttosto che fisica, anche della politica, in Italia è stato il grillismo, che ha dato valore a sistemi di incontro in rete che nel tempo hanno dimostrato di avere molte falle. Quali differenze possiamo individuare tra percorsi politici reali e virtuali?
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma il problema teorico si esprime così: tutta questa faccenda del virtuale, dell’organizzarsi nel mondo virtuale con delle ricadute pratiche (“facciamo la rivoluzione”, “ci vediamo lì nella piazza”, etc), passa sotto silenzio il punto fondamentale, cioè l’organizzazione. L’organizzazione è ciò che distingue un organismo da un’accozzaglia, ovvero da una massa manovrabile. D’altra parte, etimologicamente, l’organizzazione è ciò che distingue il vivente dal non vivente, perché ciò che non è organizzato, non è un organismo. Da quando la cibernetica è stata applicata anche all’ambito civile, il confine si è progressivamente sfumato, perché i sistemi di retroazione (feedback) fra vivente e non vivente sono talmente stretti e quotidiani da passare inosservati. Con un’immagine semplice: Amazon sa meglio di te che libri vorrai leggere. Se l’organizzazione è delegata sistematicamente a un sistema tecnocratico che tu non gestisci e nessuna di queste persone gestisce, comprese le piattaforme, è chiaro che ci possono essere delle ricadute positive nella realtà, ma strutturalmente quello che si genera è l’esatto contrario di qualsiasi sistema democratico.
È possibile che tagliando il cordone con la piattaforma organizzativa, la cui infrastruttura tecnica è completamente delegata, crolli tutto. Se le persone sono vulnerabili nell’organizzazione digitale che rappresenta gran parte dell’organizzazione esistente, se tutto può essere buttato giù con un computer, è ovvio che questo movimento è un fuoco di paglia. Naturalmente stiamo esagerando per evidenziare il ribaltamento che sarebbe necessario rispetto alla retorica della rete neutrale, un caso particolare del mito nell’oggettività della Tecnica, figlia prediletta di una ricerca scientifica disinteressata. Contemporaneamente alle questioni politiche, ai temi portati avanti dai movimenti che si organizzano a partire dal digitale, bisogna trovare il modo di considerare la tecnica come un discorso. Lo strumento non è neutro, il mezzo che usi non è indifferente. Siccome sono le persone che fanno le rivoluzioni, non è la stessa cosa usare i sanpietrini o Facebook. Più il grado di autonomia rispetto allo strumento è elevato più è ragionevole affermare che le persone saranno in grado di organizzarsi anche in assenza di quello strumento, cioè saranno in grado di creare soluzioni tecniche ad hoc per i loro bisogni. Meno le persone sono autonome più è ragionevole aspettarsi che senza il mezzo, la capacità organizzativa tenderà a zero.
Parliamo quindi di movimenti che individuano nell’interazione digitale un momento privilegiato e fondativo dell’esperienza collettiva, come è stato anche il caso di Occupy Wall Street e Indignados: il fatto che ci sia una precipitazione verso un coagulo analogico, il momento di vedersi in carne e ossa e conoscersi, certo depone a loro favore.
Tuttavia il problema strutturale è che i risultati della concertazione collettiva vengono poi ributtati sui social network commerciali che impareranno a fornire strumenti di auto-controllo ancora migliori. Nel caso del M5S, su Meetup, che è una piattaforma proprietaria, oppure sul blog di Grillo, che è un luogo privato gestito da una società di marketing, la Casaleggio e Associati, non dall’ampia partecipazione popolare organizzata. Quindi per quanto riguarda la disintermediazione della politica, l’abbattimento della casta, il governo del 99% e così via, anche nel caso in cui questi movimenti 2.0 riuscissero a creare strumenti autonomi di consultazione, partecipazione e organizzazione, in realtà la questione centrale dell’organizzazione, della diffusione del potere, delle concentrazioni gerarchiche risulterà intatta. Le caste dei tecnici sono già diventate le nuove caste di burocrati, ai quali si possono applicare tutte le critiche note al sistema tecno-burocratico. Peggio ancora, si tratta in effetti di sistemi per la selezione di opinioni consone alla maggioranza e di deliberazione assistita tramite il voto su qualsiasi argomento. Nel caso del blog di Grillo in realtà un numero considerevole di proposte non provengono affatto dal «popolo della Rete», ma sono avanzate da Grillo stesso e dai suoi collaboratori più stretti e sottoposte a votazione.
Il più noto strumento di partecipazione digitale è LiquidFeedback, creato dai Piraten tedeschi, la cui ricetta dichiarata è coniugare la democrazia liquida con la moderazione collettiva, un processo decisionale del tutto trasparente e il voto preferenziale. http://liquidfeedback.org/. L’idea è: siccome siamo consapevoli dell’autonomia rispetto allo strumento, e siccome siamo dei nerd, vogliamo risolvere il problema in maniera tecnica. Inventano dunque uno strumento con cui si possano selezionare le proposte, svilupparle, ma soprattutto votare: un sistema per votare su qualsiasi cosa, che noi chiamiamo deliberazione assistita (dalla macchina). Ancora una volta c’è una piccola parte di superutenti, quelli che costruiscono il sistema, che non sono sotto il controllo di nessuno. Non abbiamo cioè risolto il problema della comunicazione trasparente tra la base e i vertici, in un sistema in cui i vertici sono i tecnici e tendono a rendersi invisibili, o peggio a percepirsi come elementi anodini, facilitatori delle interazioni del tutto neutrali, gente che risolve i problemi che gli altri non vedono.
In ogni caso, assumere l’atto del voto come punto nevralgico della partecipazione politica significa abdicare immediatamente alla ricerca del consenso proprio mentre si parla a vanvera e senza i dovuti distinguo di democrazia liquida, iperdemocrazia, democrazia continua. Come fossero sinonimi fra loro e identici alla democrazia diretta.
Per non parlare del fatto che si va incontro a un modello di democrazia quantitativo. Dal mio punto di vista è la dittatura della maggioranza, asseverata dal mezzo tecnico, cioè la macchina dice: la maggioranza vuole questo. Le minoranze sono strutturalmente bandite. Sappiamo che il voto è l’unico modo certo per cui non si raggiungerà mai il consenso e ci saranno sempre minoranze che potranno risentirsi o essere oppresse. Dal nostro punto di vista politico questa modalità di partecipazione è bacata. Tra l’altro, è molto più facile truccare dei voti elettronici che le schede cartacee.
Il nostro punto di vista è quello di studiosi dell’informatica del dominio con un chiaro pregiudizio a favore delle pratiche libertarie. I media digitali sono a nostro parere il luogo per eccellenza di manifestazione dei conflitti, l’arena in cui i meccanismi di potere sono più evidenti e brutali, gli spazi privilegiati per individuare l’emersione di inedite dinamiche di dominio ed eventualmente di linee di fuga. Per questo «il digitale» è un luogo per eccellenza politico e ideologico, niente affatto neutrale.
Riguardo al mediattivismo, parliamo di soggetti più o meno consapevoli che producono contenuti politici, quali sono le mancanze nell’uso dei network, e come si può riuscire a diffondere contenuti di un certo spessore anche in quest’epoca?
Non possiamo prendere la parola e spiegare uno scenario perché non abbiamo ovviamente l’intera visione. Possiamo dire sicuramente che il luogo del mondo in cui sei è importante: ci sono dei luoghi in cui oggi usare Facebook e Twitter è pericoloso, è un atto di insubordinazione e rivolta rispetto ad autorità dispotiche, per cui diventano automaticamente strumenti di ribellione. Ma non qui, non nelle democrazie più o meno liberali. Direi che il grosso problema, dal nostro punto di vista è la tendenza a cedere alla pornografia emotiva dilagante. Al fatto che tu fai una cosa e lo devono sapere tutti, l’autopromozione pubblicitaria di ciò che fai diventa un’esposizione delle viscere: filmare tutto e mettere tutto in rete, il più possibile in tempo reale. In generale, un messaggio politico nei network commerciali sarà de-policitizzato, fuori contesto diventerà una sciocchezza sottoposta al sistema pubblicitario, perché anche il contenuto politico deve essere figo, veloce, ficcante. Le competenze tecniche vengono spese per imparare a stare nelle regole che da una parte sono del mercato e dall’altra dello strumento. Ma soprattutto sono competenze che andranno in disuso nel giro di un niente, perché le regole cambieranno tra un minuto e tu sarai comunque sempre inadeguato. Le campagne di crowdfunding per i finanziare i migliori progetti sociali, di emancipazione, radicali… in definitiva, sono anche campagne di apprendimento collettivo, per imparare a pubblicizzare il proprio prodotto-progetto, a venderlo, e spingere il proprio pubblico a usare quello stesso strumento.
Sarebbe più interessante avere la possibilità di pubblicare su una scala più piccola, ma parlando in maniera più specifica con le persone, capendo davvero su chi si vuole andare a impattare. Invece di rimanere incantanti dall’illusione del broadcast di massa, di parlare con tutti con un click.
La realtà in presa diretta non esiste e se esiste è spesso pornografica. L’esempio che citiamo sempre è quello della citizen journalist a Gaza che fotografa i bimbi palestinesi morti sotto le bombe israeliane. E cosa fa? Prende le foto e le posta su FB. E cosa fa la gente? Clicca «mi piace». E il risultato sono centinaia di «mi piace» in calce a una foto di bambini massacrati. Non c’è la possibilità di contestualizzare, di raccontare una storia, per solidarizzare empatia in una maniera che non sia biecamente pubblicitaria. Poi è facile gridare al rischio censura, ma è falsa coscienza: o sei in grado di raccontare una storia all’interno di un contesto, oppure è uguale a vedere un video pubblicitario, è fiction. E la pubblicità provoca assuefazione, perciò la prossima volta vorrai una dose maggiore, aumentata, maggiorata di realtà (mediata da uno schermo) sparata dritta in faccia.
Dove il vostro lavoro è più seguito, ci sono collaborazioni aperte con altre realtà o singol* europei sul tema?
In Francia godiamo di una diffusione editoriale maggiore, con un pubblico tendenzialmente molto meno inquadrabile politicamente. In Francia l’hacking è arrivato almeno con almeno 10 anni di ritardo. Non ci sono stati gli anni Novanta, con gli hackmeeting, gli squat, etc. Sono arrivati adesso e si riuniscono in posti che si chiamano fablab, c’è un grande entusiasmo per i makers con le stampanti 3D, ma anche sull’Open Hardware, Arduino e simili, e sulla costruzione di reti mesh o comunque autogestite, da quelle completamente sganciate da Internet a quelle comunitarie con qualche punto d’ingresso sulla rete globale.
Alimentiamo relazioni varie, dall’ultra-accademico al piccolo gruppuscolo di gente che fa delle cose senza propagandarlo troppo e ben contento di non avere troppa attenzione se non dove e quando vuole averla. Francia, Belgio, Spagna, Olanda. Parliamo con tutti, dagli entusiasti della partecipazione digitale al filone catastrofista luddista, che tra l’altro in Francia va per la maggiore, in particolare nella zona di Grenoble, che lavora sul controllo, sull’internet degli oggetti, sulla miniaturizzazione, di cui Grenoble è uno dei fulcri. Si capisce che siano luddisti, perché se vedi cose del genere… Non stiamo parlando di microfoni ambientali, stiamo parlando di polvere che butti per terra, e se la schiacci ti ritrovi con microfoni sotto le scarpe. E non è fantascienza, è solo che per ora costa ancora troppo.
Poi ci sono gli estremi opposti, gli entusiasti, per lo più americani. Ma anche lì, ci sono persone da tenere d’occhio. Danah Boyd, studiosa americana della Microsoft, che dice cose interessante sull’uso dei social network da parte degli adolescenti. Gabriella Coleman, anche. Certo gli americani hanno tutti il problema della scarsa prospettiva storica a livello politico, tendono a presentare ogni cosa come una grande innovazione senza precedenti; e poi hanno la tendenza a dare per scontato che il capitalismo vada bene, ovvero raramente mettono in discussione il consumismo come unica via. Questa non è solo l’America, anche in Cina la stessa situazione.
In Spagna, Belgio, Olanda, Germania, Slovenia, UK c’è tanta gente che fa cose interessanti qui e ora. Però per noi, dal punto di vista dell’ispirazione, i riferimenti sono vecchi sociologi e filosofi e scienziati, gente che è morta per lo più, così andiamo sul sicuro, non abbiamo sorprese e non c’è il problema che si offendano o si sentano traditi!
In uno dei laboratori per ragazzin* fatto con le Sm4mm3 avete parlato di geopolitica dell’hardware. Che importanza ha rendere chiare quali sono le origini delle componenti di un oggetto tecnologico?
I laboratori di autodifesa digitale sono una delle nostre risposte concrete alla vulnerabilità tecnologica diffusa. L’archeologia dei media, sotto forma di profondità storica, è un antidoto potente contro la nostalgia dell’età dell’oro che non è mai esistita, contro qualsiasi mito dell’origine, vagheggiamento di una purezza perduta, proiezione di un futuro radioso a sbattimento zero. Il primo passo è osservare gli strumenti che utilizziamo e far vedere come vengono costruiti, con che materiali, dove, da chi. Il fatto che tutti gli strumenti digitali, nonostante le retoriche sull’immaterialità virtuale, sono ben materiali, costruiti con materie il cui sfruttamento rientra in un più ampio sfruttamento globale di risorse minerarie, energetiche, umane.
Dopo una doccia fredda di realtà, il passo è evitare ogni inutile senso di colpa, insomma non buttarsi troppo giù, perché sentirsi irrilevanti, ritenere che il proprio comportamento non cambierà nulla è l’anticamera della rassegnazione. Costruiamo quindi un ragionamento insieme ai ragazzi e agli adulti a proposito dell’utilizzo consapevole, del carattere proprietario dei social network commerciali, delle cloud e così via. A questo punto si profilano scelte concrete possibili, perché diventa chiaro che la pesante materia, l’hardware dove sono stoccati i tuoi dati a cui accedi tramite i tuoi terminali leggeri, si trova in luoghi lontani, al di fuori dal tuo controllo. Quindi ragioniamo su qual è veramente la differenza tra i servizi autogestiti e i servizi commerciali, schematizzando tra Autistici.org e gmail.com. La differenza è che di Autistici puoi sapere dove stanno i computer che gestiscono i tuoi dati, puoi sostenere il progetto. A livello geopolitico, puoi fare un percorso a ritroso per capire quando ti connetti, dove ti connetti. E quello che ti viene detto in continuazione è: attenzione, noi non siamo garanti della tua libertà e del tuo accesso, cerca di imparare, di capire cosa ti serve, e tieni per quanto possibile i dati a casa tua: scaricali. Con Google o chiunque altro fornisca servizi commerciali è esattamente il contrario: ti viene detto di non preoccuparti, di lasciar tutto dove sta; ti viene ripetuto di star tranquilla, c’è qualcuno che si prende cura di te. Non sai ora e non saprai mai dove e stanno i tuoi dati. Non interessa a te, e non interessa a loro: è un processo di delega senza fine.
D’altra parte, la ragione per cui non sai dove stanno i dati è che non lo sa nemmeno chi ti fornisce il servizio: attualmente è troppo costoso, il sistema non è pensato per fornire questo genere di informazioni (magari si potrà implementare per acquietare le coscienze). Le macchine sono state programmate per funzionare a cascata, come in una rete neurale in cui si propaga un impulso. Ci sono macchine che fanno funzionare altre macchine, che fanno funzionare altre macchine, non c’è nessuno dietro se non a un livello molto alto, di supervisione-automazione, oppure a un livello molto basso, nel caso in cui stiano venendo a cercare proprio te perché hai fatto scattare qualche campanello d’allarme. Se tu devi accedere alla tua gmail e stai in italia, quei dati staranno presumibilmente non troppo lontano perché non conviene a nessuno che lo siano. Forse in Irlanda, in Islanda? Tutto presunto. Se tu vai a Honk Kong e accedi al tuo gmail, è possibile che i dati a cui accedi siano dati replicati in un altro sito di stoccaggio più vicino alla tua nuova posizione. Se vai in America, è possibile che siano ancora da un’altra parte, un’altra copia, ma per te sono sempre «i tuoi dati». C’è uno spreco di risorse straordinario. Se sei sempre connessa a Facebook, a un qualsiasi social commerciale, devi pensare che hai un filo diretto con delle macchine accese che stanno probabilmente all’altro capo del mondo, e il cui funzionamento per te trasparente media in maniera essenziale la tua esperienza. Questa è geopolitica.
La cloud non sta mica sulle nuvole, sta per terra, sono dei capannoni chilometrici colmi di armadi refrigerati pieni di hard disk collegati fra loro con delle guardie armate fuori. Sono più difesi di Fort Knox questi centri di elaborazione dati. Dentro quei dischi ci stanno per esempio tutte le mail della gente con un account su gmail, appiccicate l’una all’altra, e le macchine devono essere sempre raggiungibili altrimenti tu non puoi vederle, cioè devono stare sempre su, non può mai andare giù la corrente. Ogni volta che tu accedi al tuo account su Apple Store, sei dall’altra parte del mondo. Più cresce la tua assuefazione, perché non ti domandi nemmeno dove sei, più si innestano livelli di dipendenza, perché il tuo corpo digitale diventa enorme e il tuo corpo fisico sempre più inadatto a vivere senza quei servizi. Se ti chiudono i servizi di condivisione foto e video, dove le metti le tue migliaia di foto, le tue ore di video perché tutti le possano vedere? Dipendi da quei servizi perché sono quei servizi che ti fanno accedere alla relazione con gli altri, che dettano le regole della tua socialità. Tanto per aggiungere un po’ di allegria!
Ultima domanda sul lavoro con i ragazzin*. Che risposta c’è da parte loro?
L’ultima volta abbiamo lavorato con bambini dagli 8 ai 12 anni. Il rapporto con noi è diverso da quello che hanno con i genitori, da soli tirano fuori parecchie cose che non tirano fuori con gli adulti. Il rapporto con gli adulti in generale è chiaro: nel complesso non sanno niente, inutile chiedere perché ti risponderanno o «Questo no», oppure «fai tu», o nella migliore delle ipotesi daranno una risposta abbastanza incomprensibile quando si tratta di genitori ingegneri, tecnici o persone colte. I ragazzin* in realtà sono molto interessati a parlare di ciò che fanno, perché appena si esce dalla dinamica controllo/divieto, «fa’ ciò che vuoi, mi fido, ma sai che ti controllo», oppure «stai attento, perché se esageri te lo vieto», ovvero «sono molto preoccupato, ma cerco di non fartelo pesare» (come se non se ne accorgessero!), in realtà spesso si scopre che hanno un certo di grado di riflessione. Non è vero ad esempio che non sono interessati alla privacy, solo che non capiscono delle cose banali: sono ingenui perché gli adulti sono ingenui e nessuno gli ha dato delle coordinate per orientarsi. Gli adulti pensano che Facebook sia gratis, che Google sia l’amico che ti orienta, e dunque lo pensano anche i bambini. Non si può imputare a loro un’ingenuità che gli viene da tutto il mondo che gli sta intorno.
Poi hanno imparato a svicolare il controllo nel mondo digitale, a separare gli ambiti. Magari hanno un account su Facebook ma con gli amici stanno su WhatsApp, su Instagram, insomma hanno un account di facciata per rassicurare gli adulti che li controllano e poi si fanno gli affari loro altrove con strumenti su cui gli adulti non sono ancora arrivati. Ma ovviamente sotto il vigile controllo del social commerciale. Ed è presumibile che quando gli adulti arriveranno a Instagram loro si sposteranno altrove. In generale sono molto disponibili, attenti, di certo abbiamo lavorato con bambini particolarmente stimolati, ma sono curiosi anche se, devo dire, molto meno competenti di quello che gli adulti pensano. Non sanno fare molte cose, non hanno idea di come funzionano. Smanettano, questo sì, sono abili a cavarsela, ma non sono dei geni come spesso i genitori credono. Appena gli cambi un’interfaccia non ne sanno nulla, non ragionano a funzioni, a funzionalità. Tirano molto a indovinare. Avrebbero bisogno di alfabetizzazione digitale tanto quanto gli adulti, ma non è vero che ne sanno molto di più degli adulti, anche se così sembra.
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[Questa è la versione integrale dell’intervista apparsa sul numero di Laspro gen/feb]