Palestina, obbligati a resistere – parte V

Campo Profughi Aida: la resistenza vive nell’aspirazione al ritorno nei villaggi natii

di Patrizia Fiocchetti

La chiave in ferro sormonta l’entrata del campo di Aida a Betlemme, sotto di essa passano i visitatori, una simbolo potente dell’aspirazione che dal 1948, anno di fondazione del campo, si tramanda di padre in figlio: far ritorno ai villaggi natii. Di fronte il muro si erge grigio e incolore e corre parallelo al campo; un bimbetto di pochi anni è fermo lì accanto, serio e silenzioso non risponde ai nostri inviti ad avvicinarsi. Poi ne arrivano altri e ridendo lo trascinano via con loro.
«Il Campo di Aida nasce da un primo nucleo di 400 profughi della Nakba provenienti da 27 villaggi palestinesi. Qui all’epoca c’erano solo una chiesa e un caffè» così esordisce Munther Amira, rappresentante del comitato di resistenza popolare di Aida. «Sono 66 anni che viviamo qui, affrontando l’occupazione israeliana attraverso la resistenza che gli opponiamo nella prospettiva di migliorare le nostre condizioni di vita, anche a dispetto di una situazione politica che peggiora di giorno in giorno».
Entriamo nel campo, Munther indica la chiave all’entrata. «Quando i nostri padri, i nostri nonni sono stati costretti ad abbandonare le loro case, hanno portato con loro le chiavi nella profonda convinzione che molto presto avrebbero fatto ritorno. Un’idea che negli anni si è trasformata in una speranza talmente radicata in noi e poi nei nostri figli da tenere vivo il senso di appartenenza a quell’universo a cui siamo stati strappati. La chiave mostra al mondo intero il nostro sogno ma anche la nostra determinazione. Dei 27 villaggi solo alcuni esistono ancora, come Zacharia e Beil Jabril nella provincia di Gerico abitati adesso da israeliani».

Panorama di Aida Camp

Panorama di Aida Camp

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