Laspro, ultimo numero – editoriale

Quello che segue è l’editoriale che comparirà sul numero 42 di Laspro, che uscirà a settembre e sarà l’ultimo numero di Laspro, rivista di letteratura, arti & mestieri che chiude dopo nove anni e mezzo di pubblicazioni (il primo numero era uscito ad aprile 2009).

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Illustrazione di Aladin

Quello che hai tra le mani è l’ultimo numero di Laspro. Se sei un lettore abituale o addirittura un abbonato, conosci già la rivista e immaginiamo che questo annuncio ti dispiaccia un po’. Se invece hai preso casualmente questo foglio in uno dei luoghi in cui viene distribuito, ti spieghiamo: Laspro è una rivista cartacea che dal 2009 racconta la realtà che ci circonda con gli strumenti della narrativa. Quel “letteratura, arti & mestieri” che sta nel sottotitolo è il nostro modo di radicarci nella concretezza della vita che viviamo tutti i giorni, provando a descriverla, a ragionarci su e magari a metterci, se ci riusciamo, anche un po’ di bellezza.
Concretamente, è una rivista di racconti, articoli, illustrazioni, fotografie con un forte radicamento negli spazi di autorganizzazione sociale, principalmente a Roma. È realizzata da un collettivo redazionale di una decina di persone che non fa questo per mestiere ed è completamente autofinanziata. Facciamo reading in cui accompagniamo le nostre storie con la musica, per portarle fuori dalla carta e in mezzo alle persone.
Tutto questo, con numerose trasformazioni, nelle persone che la componevano, nelle forme, nelle modalità, è stata Laspro dal 2009 a oggi. Ancora adesso ne parliamo al presente. Ma ormai da tempo la spinta di questo collettivo redazionale era quanto meno affaticata. Il numero precedente a questo è uscito a ottobre 2017, quasi un anno fa. Da allora, non siamo più riusciti a fare altri numeri, e ci è riuscito anche difficile accettare di chiudere questa esperienza, fino a che la chiusura della rivista non era più una decisione da prendere ma una cosa successa da gestire.
Chiudiamo con un po’ di amaro in bocca, perché siamo convinti che le storie servano davvero, che raccontare, mettere nero su bianco, diffondere cultura che viene realmente dal basso ma non rinuncia a spiccare il volo, sia compiere un’azione culturale e politica. E di cultura e politica, in questo spaventoso momento storico che stiamo vivendo, c’è bisogno. Come molti, ci aggiriamo un po’ afasici per le strade fisiche e per quelle virtuali. Dobbiamo ammettere che siamo spesso senza parole. Bisognerà ritrovarle. Questi nove anni passati su queste pagine ci saranno utili. Mettersi insieme, fare di un’attività individuale come la scrittura un’impresa collettiva, renderla una presenza fisica, fatta di persone che portano le proprie storie con la voce e con il corpo ad altre persone sarà il nostro antidoto all’individualismo, al cinismo disincantato, alla rassegnazione.
Laspro finisce qua, ma questa storia non finisce. Ce la portiamo dietro.
Per questo abbiamo voluto realizzare un ultimo numero, più breve, con le parole di chi fa o ha fatto parte di Laspro, le illustrazioni che sono sempre state parte integrante della rivista e ancora una volta, un’ultima volta, porteremo questi fogli in giro, camminando, guardandoci in giro, chiacchierando, rubacchiando storie e annusando idee.
Abbiamo voluto bene a Laspro, abbiamo voluto bene a chi lo leggeva, a chi veniva ai nostri reading, a chi ci sosteneva. Siamo cambiati, siamo cresciuti, abbiamo fatto figli, siamo emigrati, abbiamo realizzato progetti e altri li abbiamo solo immaginati.
Mettere la parola fine è difficile. Anzi, impossibile. Meglio chiudere come sempre.
Buona lettura, e ci si vede in giro.

InQuiete – Il mondo raccontato dalle scrittrici

Qualche giorno fa la libreria Tuba – Bazar dei desideri è stata oggetto di una violenta campagna denigratoria da parte del blog Roma Fa Schifo, accusata di rappresentare il “degrado” del quartiere Pigneto, solo perché avevano espresso delle critiche a un’iniziativa di cosiddetto retake nel quartiere, promosso dalla multinazionale Airbnb.
tubaSin da quando è nata la nostra rivista (2009), Tuba è sempre stato uno dei nostri luoghi di diffusione e organizzazione di iniziative – l’ultima in occasione dello sciopero globale delle donne dell’8 marzo, diventando nel tempo un punto di riferimento per la cultura indipendente nel quartiere e nella città, marcando così una netta differenza con la cultura del consumo che caratterizza buona parte del quartiere.
L’articolo che segue, pubblicato sul numero 41 di Laspro (settembre-ottobre 2017), racconta il festival di scrittrici InQuiete, organizzato da Tuba in collaborazione con molte altre realtà del territorio, e tenuto in diversi luoghi del quartiere tra il 22 e il 24 settembre, una delle decine di iniziative culturali organizzate ogni anno da Tuba.

di Luca Palumbo e Sabrina Ramacci

«Ma tutte ‘ste femmine? E tutti ‘sti libri? Nun è che mò pe’ beve ‘na cosetta se dovemo sorbi’ ‘n flash mob de femministe e dovemo pure legge du’ righe?». Provocazioni da quattro soldi a parte, se ci fossimo trovati per caso sull’isola pedonale del Pigneto la sera del 22 settembre ci saremmo probabilmente chiesti con stupore cosa stesse accadendo, con un calice di vino in mano e un anello di calamaro fritto sotto il palato. Pullulava un fermento completamente diverso da quello che di solito osserviamo in quella minuscola striscia di Roma, un fermento in prevalenza frutto di gentrificazione e fatto di consumo spropositato di cibi e bevande varie. C’erano tantissime donne e poi libri, da non credere. Libri scritti da donne! Una rivoluzione culturale in atto e non lo sapevamo? Noi di Laspro ne eravamo a conoscenza e aspettavamo con interesse e speranza un evento che, ci auguriamo, possa essere un enorme passo verso un cambiamento culturale portato avanti da donne e che possa trasformare il nostro modo di vedere la scrittura e il mondo dei libri in quello che in realtà dovrebbe essere: assenza totale di primati maschili nel settore (non soltanto in quello della scrittura ovviamente) e disintegrarne una volta per tutte la cultura predominante. Continua a leggere

«Scritture militanti per raccontare le lotte» Intervista a Paola Staccioli

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano ArmatiChristian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Paola Staccioli (qui quella a Christian Raimo e quella a Cristiano Armati).

di Luigi Lorusso

staccioli2Paola Staccioli, scrittrice e curatrice di diversi libri che raccontano la storia dei movimenti di opposizione in Italia attraverso la narrativa o quella che si può definire storia raccontata, da In ordine pubblico fino a Sebben che siamo donne, è da anni impegnata a creare e rafforzare collegamenti tra il mondo della cultura e quello delle lotte sociali. A lei chiediamo il motivo di questo impegno.
Da diversi anni ti occupi di comporre una “storia del presente”, dei movimenti di opposizione e delle loro lotte, non solo attraverso i documenti storici, ma anche attraverso forme artistiche e letterarie. Perché pensi che la letteratura, il teatro, l’arte aiutino a comporre un quadro di questa storia?
«Giustamente dici “non solo”, nel mio lavoro i due aspetti, quello della storia e quello della narrativa non si escludono ma si rafforzano a vicenda. Io credo che un racconto, uno spettacolo teatrale possano raggiungere un pubblico più vasto rispetto a un documento storico e che arrivino ai sentimenti oltre che alla ragione, con un approccio più diretto e questo permette, forse paradossalmente, di rendere più concreti quei movimenti, quelle lotte che si vogliono raccontare. I due aspetti devono essere collegati: fin dal primo libro che ho curato, In ordine pubblico, ci sono sempre i racconti, ma anche schede storiche che ne spiegano il contesto, dall’ultimo, Sebben che staccioli1siamo donne è nato addirittura un sito e un centro di documentazione. La narrativa permette maggiori libertà: può spiegare meglio le motivazioni personali di chi lotta, il contesto umano che può spingere, a volte, anche a infrangere la legge, come spesso avviene nei movimenti di lotta, senza tra l’altro doversi preoccupare di eventuali conseguenze giudiziarie, come dovremmo fare invece in una cronaca realistica».
Hai costituito insieme ad altre persone la fondazione La Rossa Primavera che si occupa della storia della lotta di classe e del presente delle lotte sociali e politiche. Vuoi spiegarci le sue finalità?
«La fondazione nasce per rendere più continuo e collettivo questo lavoro che ho iniziato, insieme ad altri compagni e compagne, da ormai una quindicina d’anni. L’idea c’era già da molto tempo, poi è stata concretizzata adesso anche per una mia situazione personale di malattia (Paola Staccioli ne parla sul blog Le O2 con Serena Ranieri, ndr), che mi ha portato a voler garantire che questo lavoro fatto non si disperdesse. I due campi di attività, la memoria e il presente delle lotte devono marciare insieme, diramandosi poi nei vari aspetti. La fondazione si occupa delle lotte di classe dagli anni ’60, vogliamo occuparci di ciò che è meno rappresentato, meno raccontato e rischia di andare perso. Vogliamo valorizzare la memoria di quella parte della società che si è identificata con i percorsi di trasformazione politica e sociale. Questo tramite un archivio cartaceo, digitale, video che deve raccogliere tutto il materiale, ma deve anche essere qualcosa di attivo, tanto che abbiamo definito il collettivo ArchiviAzione: rendere fruibile il materiale non basta. Vogliamo rendere questa memoria viva, che venga usata anche per il presente delle lotte, che è poi il punto principale: capire il passato serve per comprendere quali sono i punti dell’oggi e del futuro. La fondazione vuole creare anche una rete di solidarietà e di sostegno alle forme di opposizione di classe a cui siamo interni. Uno dei collettivi in cui si articola la fondazione si chiama In Movimento perché vogliamo essere parte delle realtà di lotta che ci sono oggi in Italia. Un altro settore è quello della creazione di una cassa di resistenza, un fondo di solidarietà per i militanti delle lotte sociali che sempre più numerosi vengono colpiti dalla repressione».staccioli3
C’è un settore della Fondazione chiamato Di pArte – Scritture militanti. Che cosa intendi per scrittura militante? Vedi una narrativa militante oggi in Italia?
«Già la definizione Di pArte rende l’idea di una cultura non ipocritamente neutrale, ma che sia schierata, di parte appunto, che dice chiaramente da che parte sta. Riteniamo che sviluppare oggi le armi della critica con scritture graffianti sia assolutamente necessario: una scrittura che spieghi i conflitti ma che sia anche interna a essi, che guardi al presente delle lotte sociali, alle forme attuali dello sfruttamento, che racconti una condizione che molti stanno vivendo ma che è poco narrata. Vogliamo contribuire alla trasmissione delle lotte di classe dei movimenti e provare a raccontare la storia attuale dal lato degli oppressi, di chi oggi lotta e si ribella.
Esiste quindi quest’arte, questa cultura militante? A freddo verrebbe da dire che non ce n’è molta, ma se solo pensiamo a film come quelli di Ken Loach, al ruolo che ha avuto la musica in questi ultimi decenni, agli spettacoli di teatro civile, hanno supplito a delle mancanze della politica, penso ad esempio a tutto ciò che in ambito artistico è stato correlato a Genova 2001: è stato un contributo militante davvero importante. Per quanto riguarda la scrittura forse c’è stato un po’ di meno. Tutte le volte che come curatrice di libri collettivi su tematiche politiche e sociali ho contattato gli scrittori ho avuto comunque una risposta positiva. Ora stiamo scrivendo un libro di presentazione della fondazione che sarà dedicato al Fuoco: il fuoco come distruzione operata dal capitale ma anche il fuoco come lotta, come risposta, come incendio. C’è una battuta che chiude questo testo che dice: “Abbiamo bisogno di scrittori e di militanti che non abbiano paura di bruciarsi”».
Questo tipo di cultura ha un’influenza reale oggi in Italia? Non rischia di rivolgersi a una cerchia sempre più ristretta di persone?
«Sappiamo tutti che oggi ci troviamo in un periodo difficile per le lotte e i movimenti anche se c’è a mio avviso una ripresa che viene spesso sottovalutata, politica, delle lotte, ma anche culturale, sia pure nella frammentazione. C’è tutta una serie di iniziative interessanti nel prossimo periodo, di culture impegnate, forse anche troppe, un po’ disgregate. Ma non è che non ci sia niente! Parlando di cerchie, la domanda mi fa venire in mente un sasso lanciato in un lago, i cui cerchi poi si allargano. Il fatto di avere poca influenza nella società oggi non è un motivo sufficiente per non fare niente. Se tutta la sinistra di classe non riesce a essere influente nella società, io credo che i sassi nell’acqua vadano comunque gettati per far sì che questi cerchi si allarghino».

«I movimenti di lotta si raccontano in continuazione. Ma chi ne raccoglie la voce?»: intervista a Cristiano Armati

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano ArmatiChristian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Cristiano Armati (qui quella a Christian Raimo).

Cristiano Armati, scrittore e direttore editoriale di Red Star Press, è un militante dei movimenti romani per il diritto all’abitare. Non a caso, ci vediamo presso l’occupazione di via del Porto Fluviale, poco prima di un’assemblea cittadina delle occupazioni di case.

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Foto tratta da www.armati.info

Sei un militante politico e un lavoratore della cultura. Come vedi l’espressione di militanza culturale o di cultura militante?
«È difficile parlare di militanza culturale, o meglio fuorviante: io credo soltanto a un tipo di militanza, che mi piacerebbe poter definire politica, ma allo stato delle cose si può dire delle lotte sociali. Lo trovo fuorviante, perché è impensabile poter sviluppare progetti di indipendenza culturale al di fuori di una lotta. Quando parliamo di cultura è ipocrita rimuovere quello che è il vero convitato di pietra, cioè l’esclusione sociale, la subalternità economica. Quando parlo di cultura io dico sempre: “Che cosa ci faccio di un libro se non ho neppure una casa?”. Se anche il mio obiettivo fosse quello di vendere più libri, allora mi devo concentrare sul fatto che le persone abbiano la possibilità di essere pagate meglio, di avere una casa, e su quella base lì poi potersi concentrarsi sui libri, sulle tante belle cose che si possono fare nel settore culturale. Il mio modello è un medico canadese, Bethune, che quando gli chiedevano come si cura la tubercolosi rispondeva: “Con un impiego stabile e una casa decente”». Continua a leggere

«Scuole, teatri, biblioteche: l’impegno per la conoscenza» Intervista a Christian Raimo

di Luigi Lorusso

Sul numero 41 di Laspro, uscito a ottobre, abbiamo pubblicato tre interviste, a Cristiano Armati, Christian Raimo e Paola Staccioli, per una questione vecchia ma sempre attuale: la scrittura e l’impegno. Impegno civile, militanza politica, memoria e presente delle lotte. Non questioni accademiche ma argomenti vivi e vitali quando si concretizzano nel lavoro e nella vita concreta di chi ci spende passione, creatività, credibilità. Un argomento che non si chiude qui, ma che apre altre strade, riflessioni e pratiche. Di seguito l’intervista a Christian Raimo.

Christian Raimo, scrittore, traduttore, insegnante, ha preso una forte posizione pubblica in seguito allo sgombero del palazzo occupato da richiedenti asilo e rifugiati in piazza Indipendenza a Roma. In seguito alla sua partecipazione al programma tv Dalla vostra parte su Retequattro, durante il quale ha polemicamente abbandonato la trasmissione, è nato un dibattito sulla qualità dei mezzi di informazione di massa. È stato anche oggetto di numerosi attacchi personali e di censura sulla sua pagina Facebook.
Da molto tempo prendi posizioni pubbliche, ultimamente sulla questione dei rifugiati, ma in precedenza sulla politica culturale romana o sulla scuola. Per te la definizione di intellettuale di impegno civile ha senso o è qualcosa di datato?
«Ha senso se si capisce come declinarla: una parte del lavoro intellettuale è necessariamente un lavoro impegnato, soprattutto in un contesto come quello di oggi in cui le più importanti battaglie politiche si giocano sul piano della conoscenza, dell’accesso ai mezzi di comunicazione, dell’istruzione, è quindi ovvio che fare l’intellettuale impegnato spesso vuol dire semplicemente essere militante nei campi dove questo accesso alla conoscenza è più o meno possibile. Io insegno a scuola, mi occupo di scuola, faccio parte del CdA delle Biblioteche di Roma, per me questi sono dei luoghi dove si possono fare delle battaglie. D’altra parte ho imparato, con la lezione di Tullio De Mauro, che una buona battaglia politica è quella che riesce a dare al maggior numero di persone possibile la possibilità di essere autonome dal punto di vista linguistico e quindi di conoscenza del mondo. Questo per me vale nel giornalismo, nella scuola, nella mia attività editoriale».
Che continuità vedi nel tuo lavoro, dalla scuola, alle biblioteche, al lavoro editoriale?
«Per me la scuola è un’esigenza imprescindibile della condizione umana: oltre che animale sociale io penso che l’uomo sia anche un animale pedagogico. Spesso questa esigenza diventa rachitica, non riesce a svilupparsi come dovrebbe ma penso che sia una parte essenziale dell’umano, non soltanto quindi di quelli che per mestiere fanno gli educatori, ma in tutti c’è una vocazione pedagogica. Quando non possiamo praticarla una parte di noi si spegne. Io penso che rivendicare l’aspetto educativo della vita sia fondamentale, ancora di più nella pratica politica. Pedagogia è una bellissima parola, che non ha nulla di novecentesco, di archeologico o retrospettivo, è una parola che parla di futuro, di sperimentazione».
Per quanto riguarda lo specifico delle biblioteche?
«Mi piacerebbe che le biblioteche diventassero dei luoghi di pedagogia pubblica, spesso non riescono a esserlo, i soldi stanziati per le biblioteche sono sempre gli stessi o sempre meno. Nessuno direbbe che è contro le biblioteche o contro la scuola, di fatto però se non c’è un’educazione alla lettura che le sostiene, le biblioteche sono destinate a essere luoghi per pochi. Se io dovessi stilare un programma politico in tre punti metterei in ogni quartiere una biblioteca bellissima, una scuola con una gran quantità di attività di doposcuola e di ore di recupero e un teatro attivo che fa cose belle. Secondo me questi tre centri irradianti conoscenza avrebbero nel lungo periodo una capacità di trasformazione sociale molto maggiore di altre forme di intervento pubblico».
Dopo la tua partecipazione a un programma di Retequattro, totalmente infarcito di retoriche e stereotipi razzisti, durante il quale hai deciso di abbandonare la trasmissione, pensi che ci si possa rivolgere a tutte le persone, anche quelle che sono esplicitamente razziste?
«Il mondo della comunicazione oggi ha due grosse impasse: la prima è la qualità dell’informazione per cui non c’è nessun tipo di autorevolezza, quindi di fatto il direttore di un giornale o qualcuno che inizia a twittare le cose più strampalate possono avere lo stesso tipo di consenso. L’altra impasse è che sempre di più noi guardiamo il mondo della comunicazione attraverso le lenti di due grandi multinazionali, Facebook e Google, per cui abbiamo una visione distorta dalle nostre bolle del filtro. Per me un intervento politico di qualsiasi tipo deve tenere conto di queste due impasse. Se ad esempio si dice che a Roma molte donne vengono stuprate e Il Messaggero fa una campagna per Roma più sicura e per me quella campagna è sessista, per me è inutile tentare di replicare a quel messaggio non suffragato da prove, mi è molto più utile andare a contrastare l’emittente, chi ha scritto quell’articolo, da dove viene.
È inutile contrastare il messaggio se ne divento parte, io non vado in televisione nel programma Dalla vostra parte, in cui posso avere se mi va bene 1-2 minuti in cui sono inquadrato male, non si capisce la domanda che mi fanno, possono mandare il collegamento, togliere il microfono, in cui nel gioco delle parti io rappresento l’intellettuale radical chic che mostra solidarietà ai migranti. Se ci vado è perché per me ha senso attaccare l’emittente, il modo in cui quel programma funziona. Lo posso fare se ho costruito nel tempo un’emittente più ascoltata, più autorevole. Per me non aveva senso andare in trasmissione, mostrare i cartelli, fare una protesta alla Cavallo Pazzo, se non, il giorno dopo, scrivere un pezzo su Facebook in cui ricontestualizzare il gesto che avevo fatto, raccontare la bassissima qualità dell’informazione di quel programma. È successo qualcosa, la trasmissione ha chiuso? No, però ho mostrato che quel gesto si può fare, magari altri lo faranno. L’altro giorno ho visto che un paesino di non ricordo quale provincia ha replicato a Del Debbio che voleva fare una trasmissione lì, tutta piazza e populismo, che non si prestavano a questo gioco delle parti».
Nel tuo ultimo libro Tutti i banchi sono uguali parli dell’uguaglianza nel contesto della scuola. Che valore dai a questa parola in parte desueta?
«Il libro si occupa di una cosa molto specifica e cioè di come la struttura della scuola e le politiche scolastiche attualmente non solo non riescono a contrastare le disuguaglianze di opportunità, i diritti secondo la Costituzione, ma spesso le crea o le alimenta o le riproduce. Io cerco di mostrare, dati alla mano, come nello studio, ad esempio con il meccanismo delle ripetizioni, con il consiglio orientativo della terza media, con altri tipi di dispositivi c’è una forma di classismo a scuola che continua a essere riprodotto nella scuola».

Indifferente mai – Salvare le vite prima di tutto

di Patrizia Fiocchetti

Non c’è scelta. Mi ripeto. Indifferente mai. Dura, forse, spietata anche. Ma girare la testa dall’altra parte, no.
Ho percorso vie e mi sono contrapposta al fato. Ho cercato risposte e tentato alleanze, per un periodo tanto lungo che, mi ripeto, è sufficiente per dirmi “ho vissuto”. Anche se ora, in questo preciso momento, un fulmine dovesse colpirmi rubandomi il respiro.
Per questo non ho mai tradito i valori in cui sono cresciuta, l’eredità dei miei nonni antifascisti che mai scesero a compromessodi fronte al braccio granitico della repressione, anche a costo di nascondersi, o a ridursi in ginocchio a pulire le scale di condomini signorili per poter nutrire mia madre e le sue sorelle.
I comandamenti in cui credo sono meno dei biblici dieci: solidarietà, accoglienza, giustizia, diritti. Strumenti di comprensione del mondo, e di amore per l’altro umano come me, pur se diverso e lontano. Nessun muro, filo spinato di separazione dove i mattoni portano nomi pesanti “credo”, “razza”, “nazionalità”. Nessun confine, e il senso di appartenenza legato a un mondo senza frontiera. Lo dovevo – e lo devo ancora – a chi ha combattuto, creduto e pagato per quel futuro non plasmato di razzismo, guerra, violenza, supremazia consegnato alla mia di generazione. Continua a leggere

Periferie, ideali e lotte

Riceviamo questo testo da Enrico Campofreda, giornalista e autore del libro Leggeri e pungenti – Storie, luoghi e volti di periferia, libro di racconti da poco uscito per Lorusso Editore, con le fotografie di Claudio Bassi. L’articolo è stato scritto in occasione di una presentazione presso il Csoa Corto Circuito di Roma, svolta insieme allo storico fotografo di movimento Tano D’Amico.

di Enrico Campofreda

9788894106961Con la categoria di Tano D’Amico, fotografo poi celebre e celebrato, noi della militanza estrema, ed estremista secondo il revisionismo allora corrente, avevamo un gioco di sguardi. Ci scrutavamo a distanza più o meno ravvicinata. Le sue pupille, parzialmente celate dalle lenti, cercavano il particolare o il tuttotondo su cui far scattare la lente preziosa dell’obiettivo. Quello con cui per anni, diventati decenni, ha descritto attraverso la luce ciò che faceva una collettività in cerca d’una nuova vita. Era il 1973 e noi, a tutela di noi stessi e di quel che facevamo, dovevamo evitare di mostrarci, dovevamo esserci e non essere visti. Tanto meno dai fotografi.
L’anno seguente la situazione precipitò, quando certe immagini scattate chissà da chi corredarono il dossier con cui due magistrati indagavano sulla “struttura paramilitare di un gruppo extraparlamentare” che andava per questo perseguito. Adrenalina e paranoia degli interessati crebbero a tal punto che fotografi amici, come Tano, e quelli appartenenti alle forze dell’ordine o coloro che collaboravano con esse infiltrandosi nei cortei, rischiavano le rabbiose reazioni di chi non voleva finire schedato, con tanto di immagini, poi riprese anche da un noto periodico italiano. Continua a leggere

Serbia: migranti prigionieri nella terra di mezzo

Ignorati dall’Europa dell’accoglienza, aggrappati al proprio progetto di salvezza

Resoconto di una missione umanitaria e conoscitiva, organizzata dalla Cooperativa Coop Noncello di Pordenone. 5 – 8 maggio 2017

di Patrizia Fiocchetti

Se i volti sono stanchi, gli occhi sono illuminati dalla luce della determinazione. La luce che viene da una speranza salda e irriducibile, quella di voler andare avanti, contro tutte le ragioni della realpolitik, e a dispetto della paura che altri gli hanno disegnato addosso e che si portano cucita come un’ombra fastidiosa ma ineluttabile.
«Perché dovrei entrare in un campo statale qui a Belgrado? Perché dovrei denunciarmi per poi essere obbligato a presentare domanda di asilo a un paese che non mi vuole?». L’uomo pachistano, che non mi dice il nome, parla sorridendo schiettamente tenendo con una mano il piatto di minestra e nell’altra una mela, il pasto appena datogli dall’associazione di volontari BelgrAid.

Belgrado, stazione vecchia. Foto di Cristina Campanerut

Ci troviamo nella stazione vecchia della capitale serba, davanti a una serie di edifici abbandonati in cui sono accampati ormai da tempo un migliaio di profughi in attesa di poter proseguire il viaggio intrapreso da mesi, verso l’Europa centrale.
«Quando ho provato a passare la frontiera con l’Ungheria, la polizia mi ha accolto con manganelli e cani». Continua a leggere

[Laspro 39] Kill your sons: l’esperienza di Lou Reed con la psichiatria

di Alessio Carrotta (da Laspro 39, aprile/maggio 2017)

All your two-bit psychiatrists

A soli diciassette anni, il giovane Lewis Allan Reed viene sottoposto a tre sedute settimanali di elettroshock per approssimativamente due mesi. Nell’estate del 1959, ogni due giorni, viene avvolto strettamente in un lenzuolo e gli viene ficcato un pezzo di gomma fra i denti affinché la lingua non possa soffocarlo, viene deposto su un lettino rigido e senza che gli venga somministrato alcun tipo di anestetico, ma soltanto un calmante muscolare, dagli elettrodi fissati al suo cranio una scarica di elettricità ad alto voltaggio attraversa il suo cervello.
24 sessioni che avrebbero dovuto aiutare il futuro cantante dei Velvet Underground a essere meno ansioso, più integrato nella società e più ortodosso nelle sue preferenze sessuali. Dopo essersi diplomato al Freeport Junior High School, Lewis affronta infatti una depressione, soffre di cambi d’umore e manifesta tendenze omosessuali: sua sorella lo ricorda come un adolescente molto fragile, afflitto da attacchi di panico, che a sedici anni cominciò a sperimentare droghe e ad allontanarsi sempre più dei propri genitori, i quali «come agnelli condotti al macello – confusi, atterriti e condizionati a seguire l’opinione dei medici» come ha scritto Merrill Reed, sorella di Lou, accettarono il consiglio dello psichiatra che visitò l’adolescente Lou Reed e lo inviarono al Creedmoor State Psychiatric Hospital, nel Queens a New York, affinché venisse “curato” attraverso l’elettroshock.
Quale musicista, il suo personale racconto di tale esperienza si è condensato nella canzone Kill your sons, e Lou Reed ha costruito parte del suo stesso personaggio artistico a partire dal suo periodo a Creedmoor: un internamento da lui vissuto come vendetta contro la propria bisessualità più che come atroce tentativo di aiuto, una lunga serie di sedute dalle quali racconta tornasse sempre con una nuova personalità, che non sostituiva le precedenti ma vi si aggiungeva, e che minarono permanentemente la sua memoria a breve termine fino al punto di aver difficoltà a leggere, come descrive nello stesso brano. Continua a leggere

[Laspro 39] A sostegno di Pagine contro la tortura – Editoriale

È uscito il numero 39 di Laspro (marzo / aprile 2017), in distribuzione nei consueti spazi e su abbonamento (leggi qui per sapere come abbonarsi e sostenere la rivista con 10 euro l’anno). È un numero speciale, a sostegno della campagna Pagine contro la tortura – circa il divieto di ricevere libri e stampe nelle sezioni carcerarie 41bis. Abbiamo voluto raccontare il carcere, le istituzioni totali e anche l’esperienza della lettura e della letteratura in relazione ad essi.
Nel numero, ci sono articoli e racconti di chi il carcere l’ha vissuto e raccontato, come anche l’esperienza manicomiale, e articoli volutamente senza firma o firmati con uno pseudonimo, a indicare una condizione comune.
Il numero è speciale anche perché, per la prima volta, Laspro esce in 12 pagine, proprio per non perdere la ricchezza di contributi giunti in redazione. Un numero che quindi ha richiesto uno sforzo economico che vi chiediamo di sostenere, con l’abbonamento alla rivista e/o partecipando alle prossime iniziative di presentazione e sottoscrizione.
La prima: domenica 2 aprile alle 18.30 nella Sala da Thè del Csoa Forte Prenestino (l’illustrazione della locandina e della prima pagina è di Claudia Romagnoli).locandina ForteP marzo17
Nel numero: articoli e racconti di Silvia Baraldini, Alessio Carrotta, Alessandro Pera, Marco Philopat, Salvatore Ricciardi, Agnese Trocchi e della redazione di Laspro e illustrazioni di Valerio Bindi, Claudia Romagnoli e Alvise Rossi.  
Qui l’editoriale.

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di Luigi Lorusso

La Nasa ha annunciato la scoperta di un intero sistema solare con tre pianeti considerati abitabili, non troppo lontano da qui: a 39 anni luce. Dicono che il contatto con altre specie viventi extraterrestri non è più questione di se, ma di quando.
E tanti stanno già cominciando a viaggiare, verso un altro mondo, non possibile ma reale. Anzi, tre.

È anche questo che facciamo quando leggiamo storie. La parola evasione associata alla letteratura è spesso considerata sinonimo di bassa qualità. Ma il godimento della lettura è quello di lasciarci trasportare in altri mondi che non conosceremo mai. Evadere, appunto.

Mi guardo alla mia sinistra, verso la mia libreria: Conrad, Tolstoj, Omero, Le Guin, Hemingway. Mi bastano loro per aver viaggiato più di quanto potrei fare in tutta la mia vita. La creazione di mondi è la magia che si ripete ogni volta che uno scrittore gira inquieto per casa, sgranocchiando biscotti e affacciandosi al balcone per lasciarsi ispirare da ciò che vede in strada.
Evade dalla sua realtà il personaggio di Pirandello in Rimedio: la geografia, la casa riempita dalla malattia di sua madre, le parole di sua moglie e intanto, il pensiero ai fiumi della Lapponia.
Evade Darrell Standing, il prigioniero nel braccio della morte di Il vagabondo delle stelle di Jack London, che, rinchiuso in una cella di isolamento, prostrato dalla camicia di forza, vive mille altre vite possibili, volando fuori dalle mura e dalle catene a cui è legato.
Evade Jean Valjean, protagonista de I Miserabili, forzato e galeotto, che rifugge il suo nome per una vita, mostrando allo sbirro Javert la differenza tra giustizia e legge.
La fuga è diritto inalienabile di qualsiasi prigioniero. Ma lo è anche di chiunque si senta stretto, costretto, ingabbiato nelle mille prigioni in cui viviamo quotidianamente. «Far vagare la mente altrove dovrebbe essere il primo passo per ogni aspirante fuggitivo. Anzitutto immaginare la libertà, introiettarne la nozione. Poi dedicarsi, eventualmente, al lavoro concreto» scrive Valerio Evangelisti a proposito del libro Comincia adesso – Fughe ed evasioni quotidiane (Eris edizioni).

Sarà per questo che la lettura è così importante per chi ha i propri confini ristretti, dentro un carcere, un manicomio, in case di detenzione, in quei luoghi che chiamiamo istituzioni totali, detti così perché totalizzano le vite di chi vi è rinchiuso.

Questo numero di Laspro è dedicato alle istituzioni totali, in occasione della campagna Pagine contro la tortura (paginecontrolatortura.noblogs.org) che protesta contro le limitazioni alla ricezione di libri per i detenuti e le detenute sottoposti all’articolo 41bis. La Corte Costituzionale ha confermato, in una sentenza dell’8 febbraio scorso, il divieto a ricevere libri o riviste dall’esterno, motivandolo con il pericolo che possa costituire una forma di comunicazione con l’esterno.
È una campagna di sicuro non facile e non popolare, ma proprio per questo ancora più necessaria. Il divieto al ricevere libri è l’occasione per alzare il velo su quelle che sono condizioni ai limiti di quelli che vengono definiti “trattamenti crudeli, inumani e degradanti”, secondo la definizione giuridica di tortura.
I libri sono uno strumento di libertà. Ogni limitazione alla loro circolazione dovrebbe provocare la protesta di chi ama i libri, la letteratura, le storie. Di chi, ogni giorno, pratica evasioni possibili.

«E che c’entrano i fiumi della Lapponia?»
«Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano là nel golfo di Botnia. E vedessi, cara, vedessi come vedo io la tristezza di certi salici e di certe betulle, là…»