[Bassa Fedeltà] Le luci della centrale elettrica “Canzoni da spiaggia deturpata”

di Ilario Galati (da Laspro 1 aprile/maggio 2009)

Si è da qualche tempo interrotta la rubrica musicale di Laspro Bassa Fedeltà, tenuta da Ilario Galati, che è andata avanti dal numero 1 di aprile 2009 fino al numero 33 di settembre 2015. Ripubblichiamo ora sul blog alcuni degli articoli comparsi sulla versione cartacea della rivista, a partire dal primo, su un cantautore che sembrava dovesse cambiare la storia della musica italiana ma che abbiamo un po’ perso di vista.
A Ilario il ringraziamento per averci fatto scoprire musiche e storie che non conoscevamo, sperando di poterne leggere di nuovo in futuro. Buona lettura.
(REDAZIONE DI LASPRO)

le_luci_cover_con_adesivo1Dopo un anno di ascolti, dopo aver guadagnato copertine a destra e manca, dopo la targa Tenco e la conseguente sovraesposizione, questo disco continua a rappresentare un caso davvero singolare nel panorama musicale del nostro paese. Canzoni da Spiaggia Deturpata mette in fila istantanee crudeli, scampoli di poesia urbana, canzoni dimesse che l’attento lavoro del mai troppo venerato Giorgio Canali ha reso più digeribili rispetto al demo originario del 2007: Stagnola, La Lotta Armata Al Bar, Piromani, Lacrimogeni raccontano con cruda realtà il ‘sottovuoto spinto’ nel quale galleggiamo.

Quello di un paese senza memoria, con le sue periferie spersonalizzanti e le piazze vuote, che rappresentano il contesto entro il quale prendono vita le storie de Le Luci Della Centrale Elettrica, alias Vasco Brondi da Ferrara. Storie nelle quali l’io narrante, pur in una prospettiva individualista, nasconde un noi collettivo che sopravvive alla condizione patologica di non avere più l’appartenenza. Non quella intesa come il riconoscersi in qualcosa di rituale e massificato ma quella che, per dirla alla Gaber, significa «avere gli altri dentro di sé». Ecco, CdSD ci racconta cosa siamo diventati con una lucidità da fare invidia ai sociologi. Lo fa in maniera diretta e sgraziata con uno sguardo talmente cinico da farci male. E lo fa in un momento in cui quasi tutti fanno il gioco del silenzio.

Il folk urbano del venticinquenne Vasco si nutre di una serie di chiari riferimenti citati in maniera palese nel lotto di canzoni che compongono il disco. Se dal punto di vista musicale i legami evidenti sono con Cccp e Massimo Volume per attitudine rock e reiterazioni, e con Rino Gaetano per la voce e la poetica periferica, sul versante letterario i richiami sono altrettanto chiari, Pier Vittorio Tondelli in primis. Allo scrittore nato a Correggio Vasco è legato da un doppio filo. Certo che della vitalità dei personaggi del sottobosco tondelliano in queste canzoni ce n’è ben poca. La voglia di riempirsi i polmoni della frizzante aria di marzo, la sfacciata fortuna di avere vent’anni e di correre su un’autostrada, la voglia di amare, di darsi, nel caso di queste canzoni cede il passo a una visione devastata dell’esistente. Vasco racconta ciò che vede: il riflusso nel quale ci siamo cacciati e dal quale non sappiamo più uscire. Le relazioni umane sono naturalmente subordinate a un’alienazione di provincia che pare non avere rimedio.

«L’occhiocaldo mio si innamorerà di tutti, dei freak, dei beatnik e degli hippy» scrive Tondelli «delle lesbiche e dei sadomaso, degli autonomi dei cani sciolti, dei froci…» e giù uno degli elenchi più memorabili della nostra letteratura. I libertini di Tondelli hanno fiducia nel prossimo e vogliono amare la fauna “di questi scassati e tribolati anni miei”, nonostante il ricordo dei morti in piazza sia fresco e l’eroina si stia portando via una generazione.
Nei testi di Vasco i rapporti sono atrofici, l’incontro con l’altro risulta difficoltoso, il desiderio di libertà compresso dalla sopravvivenza quotidiana, il brutto che ci circonda che diventa condizione esistenziale. E la dimensione dell’impegno ha una funzione solo consolatoria, avendo abbandonato l’aspirazione di mutare l’esistente.

«Che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero». C’è più o meno tutto in questa strofa, abusata al punto da essere diventata un cliché: l’aridità, l’incertezza e la rabbia di questi terribili anni nostri.

 

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