Il collasso del futuro. Antonio Caronia, la fantascienza e la dittatura del presente

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Eravamo in pochi, il 28 gennaio scorso, nella sala della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza. Così pochi che riempivamo solo le prime due file dell’aula. Ci siamo stretti intorno alla cattedra per rendere l’ambiente più confidenziale, tanto che l’uso del microfono non era più necessario. Abbiamo ascoltato i relatori ricordare un personaggio importante della scena culturale italiana degli anni Settanta e fin quando è morto, appena più di un anno fa: Antonio Caronia.

Personalità complicata e affascinante, ricca di sfaccettature anche abrasive, di Caronia si è parlato come di una scheggia vagante, politicamente impegnato, anarchico, profondamente antielitario e libertario. Uno che faceva sempre quello che gli pareva. Il suo avvicinamento alla fantascienza, come traduttore, giornalista e acuto saggista, uno dei più importanti in Italia, è stato un movimento che partiva proprio da lì, dal suo impegno politico. Quella sera, in quell’aula universitaria, un pugno di editori, critici, professori universitari, aveva scelto di ricordarlo senza alcuna velleità nostalgica o apologetica, come spesso capita coi morti. Lo si è fatto ragionando assieme su una questione fondamentale, che Caronia, tra i primi, aveva contribuito a sollevare; un interrogativo solo apparentemente riservato agli appassionati del genere: la fantascienza rappresenta ancora un modo efficace per indagare sulla società?

Secondo Caronia questo genere letterario stava morendo e sarebbe morto, e forse infatti è andata proprio così, almeno a giudicare dagli scaffali delle librerie. Ogni volta che entro in un negozio di libri, essendo stato un vorace fruitore di science fiction per i primi vent’anni della mia vita, un occhio al settore lo lancio sempre, e sempre me ne allontano con una stilla di rammarico. Tolte infatti le immancabili operae omniae dei maestri del tempo che furono, tra tutti Bradbury, Asimov, Dick, per citare solo qualche nome, è abbastanza difficile trovare nomi freschi o titoli di rilievo, che testimonino la vitalità di un genere che, tanto per fare un paragone provocatorio, non regge più il confronto con il fantasy nelle sue numerose articolazioni.

Sono in molti a ritenere che il fenomeno del cyberpunk sia stato l’interessante canto del cigno di un tipo di narrativa che Fruttero e Lucentini battezzarono con un accattivante neologismo, allora spezzato al suo interno da un trattino: la “fanta-scienza”. E magari quei molti hanno ragione. Lo stesso Caronia ci spiegava con lungimiranza notevole perché ciò sarebbe successo. Dal suo punto di vista questo modo di raccontare storie conteneva in sé il motivo della sua prossima estinzione, un po’ come i replicanti di Blade Runner, che avevano inscritta nei geni la propria data di scadenza. Il meccanismo di funzionamento di questo genere letterario si basa sulla proiezione di alcuni elementi di un presente storicamente determinato su un grande schermo virtuale, che è il futuro. Attraverso tale dispositivo di ingrandimento e rifrazione si compie un processo di metaforizzazione del presente che ha anche una funzione critica, di messa in discussione. Ma c’era un problema: questo schermo virtuale non solo era di dimensioni finite, era pure destinato a ridursi progressivamente, fino a scomparire. Si trattava dello scarto tra reale e immaginario: era in questo interstizio che si proiettavano le ombre fantastiche eppure verosimili inventate dagli scrittori. Decennio dopo decennio, tale interstizio diventava più esiguo, perché, si disse, man mano che il progresso tecnologico accelerava, l’immaginario faceva sempre più fatica a differenziarsi dal reale. Arrivati con gli anni Novanta nell’era della simulazione totale e dell’onnipotente virtuale, l’immaginario – o meglio l’immaginabile – è diventato semplicemente un sottoprodotto del virtuale, qualcosa che perdeva la sua caratteristica più importante, quel sense of wonder che aveva fino ad allora costituito il principale propellente alla lettura. Per dirla con James G. Ballard, di cui Caronia era attento esegeta, accadeva che il futuro stava collassando, schiacciandosi su un presente indefinito e indefinibile, i cui contorni si espandevano in tempo reale, fino a inglobare – obliterandola – qualsiasi intenzione di metaforizzazione. Tutto è divenuto infine presente, un presente sciovinista che revoca ogni diritto di critica.

Non sembra un caso che, come uno dei relatori aveva illustrato quella sera, le storie che parlano dei viaggi nel tempo, topos fondante del genere, mostrano un peculiare andamento nel corso dei decenni. Fino agli anni Ottanta il numero di viaggi nel futuro era andato aumentando, poi aveva subito una radicale e progressiva contrazione, a vantaggio delle incursioni nel passato. Né, da questo punto di vista, sembra parimenti un caso l’esplosione di titoli di fantasy, genere dall’anima intrinsecamente conservatrice. È come se avessimo perso la capacità di immaginare il futuro. Come se questo fosse finito.

checkmate

Stacco. Due mesi prima. Un altro convegno, proprio nella stessa aula universitaria. Titolo: «Quando tutto era possibile». Che poi è il titolo del libro che si presentava quella sera, nella sua nuova edizione. Un volume collettivo che tentava un’analisi non esaustiva di un ventennio, ossia gli anni Sessanta e Settanta. Periodo in cui – malgrado la successiva damnatio memoriae – in Italia, e non solo, la produzione di cultura e di intrattenimento era stata eccezionalmente feconda in molti ambiti, dalla narrativa al cinema al fumetto, per esempio. La domanda di quella sera era molto semplice: perché allora sì, e poi dopo il deserto o quasi? Una delle risposte che il libro proponeva era stata la consapevolezza del conflitto sociale.

Scrive Douglas Mortimer, pseudonimo dietro il quale si “nascondono” gli autori dei contributi di quel libro:

«Sembra proprio della tradizione italiana far nascere sul terreno del conflitto interno, dello scontro sociale violento tra fazioni, il dinamismo creativo della sua cultura».

In altri termini, era stato il carattere eminentemente politico di quel ventennio fin troppo turbolento a determinare il nascere di un’intellettualità “di massa”, nel senso di diffusa e distribuita, non polarizzata nelle frange elitarie come capiterà sempre di più in seguito. Un humus irripetibile che aveva germogliato ovunque, negli horror anarchici di Freda e Bava come nel western di Leone o di Tex Willer.

Dopo, il “riflusso”, come è stato chiamato. Le ustioni provocate da quel conflitto avevano provocato una sedazione massiva e per una complicata sinergia di cause il conflitto prese a sparire, se non dal corpo sociale, dalla sua epidermide. Iniziano i griffati anni Ottanta e un intero lessico, un equipaggiamento intellettuale per osservare criticamente la realtà diventa improvvisamente obsoleto. I collettivi come quello in cui militava Caronia, Un’ambigua utopia, cessano di vivere o perdono il loro slancio vitale. La politica scompare dai licei e dalle università, e la sinistra istituzionale entra nella fase più evidente della sua mutazione, che la spersonalizza sempre di più e ne permette il progressivo riassorbimento entro gli orizzonti dell’agenda politica della destra. Perché, in realtà, sotto la pelle il conflitto non aveva smesso di lavorare surrettiziamente. Quando cominciamo a svegliarci – a fatica – da questo coma indotto, all’inizio del nuovo millennio, ci rendiamo conto che ci è stata raccontata una vera e propria balla, e non a fin di bene. Sorpresa: la guerra di classe non s’è mai arrestata, ma anzi, senza più nemmeno l’argine delle controculture e dei movimenti antagonisti, è diventata globale. Come disse Warren Buffett: «C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo».

Se questa chiave di lettura fosse vera, non sarebbe semplicemente la fantascienza, ultima arrivata, a esser morta. Ma si tratterebbe di un assassinio, compiuto da più mani. Quelle di chi aveva tutto da guadagnare dal suo decesso, e quelle di chi con l’ignavia o l’ingenuità aveva lasciato che tale crimine venisse perpetrato. Il perché diventa improvvisamente più semplice da afferrare. Essa era, al pari di altre attività, uno strumento cognitivo utilissimo al servizio della critica sociale, un’arma bianca capace, dato il suo carattere popolare, di arrivare potenzialmente a chiunque. Cosa perfettamente intuita da gente come Antonio Caronia, che, vale la pena ripeterlo, alla cosiddetta “narrativa d’anticipazione” era arrivato dall’attivismo politico, lui che aveva una spiccata inclinazione per la speculazione filosofica e che leggeva i vari Ballard e Sturgeon con gli occhi allenati sui testi di Baudrillard e di Foucault.

Se davvero le cose stessero così, allora quel testimone può essere ancora raccolto e un morto può tornare a vivere. Aggirare le proibizioni del reale è dopotutto parte della divertente ginnastica concettuale a cui ci ha sempre abituato la science fiction. Ma ogni resurrezione, in una storia che funzioni, deve avvenire attraverso un rinnovamento che sia interessante ed efficace. Servono nuovi attori sulla scena culturale che tornino, in modi inediti e imprevedibili, ad allargare quello spazio tra immaginario e reale, per allentare la morsa dispotica di quest’ultimo. Per dirci che il futuro non è finito, e che immaginarlo criticamente è ancora un potente mezzo per mettere in discussione il presente.

«Che tutta la cultura di massa, e la narrativa popolare in particolare, ci parli di noi, dei rapporti sociali, di potere, che ci attraversano, anche quando fa le viste di parlarci d’altro, è comunemente accettato. Che la fantascienza ce ne parli in modo più ricco e articolato, che, in quanto genere, rechi in sé la potenzialità di un discorso più preciso e aderente alla nostra condizione, è paradossalmente da collegarsi con il suo essere svincolata da convenzioni narrative di rispecchiamento realistico della realtà».

Antonio Caronia, “Incarnazioni dell’immaginario”, in: Nei labirinti della fantascienza. Guida critica a cura del collettivo “Un’ambigua utopia”, Feltrinelli, Milano 1979.